Come volevasi dimostrare (per adesso, almeno).
Mark Zuckerberg ha deciso che i post di Trump non meritano alcuna censura da parte del social network. In particolare quello in cui il presidente – citando il sindaco razzista di Miami, Walter Headley – si diceva pronto all’uso della forza: «quando iniziano i saccheggi si inizia anche a sparare».
Zuckerberg ieri ha scritto un post: «la nostra posizione è quella di consentire la massima espressione possibile a meno che non provocherà un rischio imminente di pericoli specifici». Niente per cui valga la pena intervenire, come ha fatto Twitter. Certo poi il CEO di Facebook ha mostrato il suo aspetto compassionevole: «personalmente, ho una reazione viscerale negativa di fronte a questo tipo di retorica divisiva e che infiamma gli animi. Questo è un momento che richiede unità e calma, abbiamo bisogno di empatia (la parolina magica, nda) per le persone e le comunità che stanno soffrendo».
Tuttavia, e qui Zuckerberg lascia capire come si comporterà finché potrà, la funzione di agorà viene prima di quella di censore, dunque è bene che le persone sappiano da Facebook «se il governo ha intenzione di schierare la forza». Ecco perché non censura.
Dentro il social network c’è stata una mezza rivolta con una specie di sciopero virtuale. Sciopero che non è servito a nulla, ma gli equilibri potrebbero anche cambiare.
Come ho scritto, esiste una sorta di indicibile accordo oppure una perfetta e tacita coincidenza di interessi, se non vogliamo sembrare troppo dietrologici, un’intesa politica a termine tra Trump e Zuckerberg sui percorsi convergenti e paralleli di politica e social network.
La convergenza sta nel lasciare libertà massima di espressione a chiunque, e dunque lasciare la massima diffusione possibile dei contenuti che per la piattaforma equivalgono alla materia prima su cui è costruito il suo modello di business. Per uno la libertà di espressione vuol dire spararla grossa, mobilitare la pancia razzista e suprematista dei suoi sostenitori; per l’altro la libertà di espressione significa continuare a fare affari.
Il sentiero parallelo, invece, si snoda intorno al contenuto dei contenuti, perdonate il gioco di parole. E cioè quello che sta dentro i post, i video, i Meme. Insomma la politica (quindi Trump) afferma quello che vuole, senza censure, anche minacciando il ricorso alla violenza, senza farsi mai bacchettare, etichettare da un qualunque social network, senza finire vittima di quegli inutili orpelli chiamati fact checking o debunking (e comunque sono davvero inutili lì dentro).
Le techno-corporation lasciano correre, guardano davanti a sé, corrono lungo il proprio binario, indifferenti a quanto accade intorno. La libertà è sovrana, soprattuto quella di fare affari sui post che più infiammano la platea dei sostenitori del presidente.
Non mi interessa in questa sede discutere di Trump. Né mi interessa capire se ha fatto bene o male il descamisado Jack Dorsey, grande capo di Twitter, ad apporre quell’etichetta al tweet del presidente. Ciò che mi preme è provare a interpretare quello che sta accadendo nella relazione tra governo degli Stati Uniti e Facebook.
Anche perché c’è un passaggio in cui si intuisce che il canale di comunicazione, nonostante i rischiami di Mark all’empatia, sia più aperto che mai: «siamo stati in contatto con la Casa Bianca per spiegare le nostre politiche». Non mi turba che si parlino, anzi, conferma la natura di istituzione, di meta-nazione digitale, rappresentata da Facebook.
Ciò che mi turba è semmai il distacco con cui viene analizzata questa dialettica, una relazione che invece è utile studiare per coglierne i riflessi sulla politica.
Non è indifferente ai messaggi di Trump, tutto questo.
Non è irrilevante per la sua strategia politica e, ovviamente, di comunicazione politica.
Non ha una portata trascurabile rispetto alla porzione di americani (e non solo) che si è “informata” su quanto accadeva nelle città statunitensi proprio nei social network di Zuckerberg. Lo spazio del dibattito pubblico è un grande ecosistema in qui i travasi tra network e social network sono continui. Ma le persone portano a letto il cellulare, non la CNN. In questo ha ragione Zuck a dire che se il governo decide di applicare la legge marziale, una buona parte (la maggioranza?) di cittadini lo leggerà su Facebook.
Lo spazio della propaganda – da qui a novembre – è tutto nei milioni, decine di milioni, di dark post sulle rivolte che la grande massa di persone indignate per la brutalità della polizia americana non vede. E che nutrono la pancia dei supporter del presidente, li richiamano al dovere di registrazione in vista delle elezioni, li sostengono con parole d’ordine, li annaffiano di paura e di terrore per quello che potrà accadere, attraverso le funzioni che il social network mette a disposizione dello staff digitale di Trump, a partire dalla costruzione dei pubblici lookalike.
Non sono così certo che tutti coloro che oggi stanno manifestando andranno a registrarsi per le presidenziali, lo ha detto con grande chiarezza la sindaca di Atlanta.
La storia è complessa, qui trovate il link a quanto ho scritto l’altro ieri: Quell’accordo tra Trump e Facebook in vista delle presidenziali.