Cos’è il metaverso?
È l’insieme di tutto ciò che è virtuale, digitale, fisico, aumentato, insieme al quale va aggiunta tutta Internet, compresi software e bot; insomma una specie di super-convergenza di ambienti e luoghi, fisici e digitali.
Metaverso è un’espressione figlia di Neal Stephenson, e del suo libro Snow Crash, romanzo preferito dai fondatori di Google Sergey Brin e Larry Page.
Mark Zuckerberg, in una recente e importante intervista a Casey Newton, ha detto che il futuro di Facebook va in questa direzione: «il nostro obiettivo generale è aiutare a dare vita al metaverso».
Cerchiamo di capire da dove arrivi questa affermazione di Zuck, che potrebbe anche sembrare provocatoria, ma – vi assicuro – non lo è affatto.
Partiamo da un dato di fatto: Facebook è da tempo sotto attacco, da tempo e da parte di molti, a partire dal presidente Joe Biden. Tutta colpa della diffusione incontrollata della disinformazione e dei rischi connessi alle campagne di vaccinazione in diversi paesi del mondo. Nell’intervista a Casey Newton, Zuckerberg ha fatto quello che ci si aspetta dall’amministratore delegato di una grande azienda, ha cercato un titolo alternativo, ha provato a mettere sul piatto una notizia buona che tiri giù una notizia cattiva. Insomma si è difeso e ha rilanciato.
La disinformazione, ha ammesso Mark per la prima volta, non si può debellare o cancellare. «È un po’ come combattere il crimine in una città. Nessuno si aspetta che tu possa mai risolvere del tutto il problema della criminalità. L’obiettivo di un dipartimento di polizia non è fare in modo che, se assistiamo a un crimine, si dica che il dipartimento di polizia sta fallendo. Questo non è ragionevole, (…) ci aspettiamo che i sistemi che devono garantire l’integrità, i dipartimenti di polizia, appunto, facciano un buon lavoro per aiutare a scoraggiare il crimine».
Conta l’intenzione, insomma, non il risultato, conta scoraggiare la disinformazione non cancellarla perché essa, come i furti, sarà con noi finché l’uomo sarà sulla terra, la terra digitale. Debellare la manipolazione delle informazioni è dunque letteralmente impossibile. Credo che questa ammissione sia una conferma del fatto che parlare di metaverso non sia una totale scappatoia per Zuckerberg. Certo in parte lo è, ma nella sostanza egli comincia realmente a pensare all’ecosistema digitale come a un analogo, a una replica connessa del mondo fisico. Lo racconta così: «puoi pensare al metaverso come a un Internet incarnato, dove invece di visualizzare solo i contenuti, ci sei dentro» (altro che post in un blog, basterebbe questa frase o l’espressione Internet incarnato per accendere infiniti discorsi e indurre al silenzio chiunque riduca tutto questo a qualche accessorio, a uno strumento…).
L’idea di fondo è rendere concreta una parola, un ossimoro, che Zuckerberg ha utilizzato nel primo lockdown statunitense. Era il marzo del 2020 ed egli disse che Facebook doveva cominciare a pensare in termini di «videopresenza» come obiettivo delle nuove relazioni da remoto instaurate dal social network. Pensate all’enorme contraddizione insita in questa espressione: o è video, o è presenza. Eppure Mark non si era fatto problemi ad associare i due termini. Il digitale fagocita gli ossimori.
Certo, per adesso, neanche Zuckerberg è capace di restituire le coordinate del metaverso, ma afferma una cosa precisa che riguarda la sua azienda: passeremo dall’essere «un’azienda di social media a essere un’azienda del metaverso». Se qualsiasi approccio che intenda interpretare il lavoro di Facebook deve sempre partire, in maniera filologica, dalle parole del suo fondatore, mai come adesso un simile modo di procedere dev’essere applicato con rigore. Così, ogni nuova modifica alle funzioni di Instagram, Facebook e Whatsapp dovremmo provare a capirla a partire da questa direzione che egli sta tentando di imprimere al suo impero.
Intanto dobbiamo deciderci a pensare allo smartphone più come a un’entità, a ciò che dentro vi galleggia, che a un dispositivo da utilizzare. Ne abbiamo parlato spesso su Disobbedienze: il bluetooth e gli assistenti vocali portano a considerare lo smartphone come un terminale attraverso il quale ci mettiamo in comunicazione con l’intelligenza artificiale per fare cose, a partire da comandi vocali.
Zuckerberg sostiene che la direzione è esattamente questa. E che non va più bene utilizzare questo «piccolo rettangolo luminoso» per interagire. Serve qualcosa di più efficace, di più facile, a partire dall’utilizzo degli smart glasses, della realtà aumentata e di quella virtuale: «le interazioni che avremo saranno molto più ricche, sembreranno reali. In futuro (…) sarai in grado di sederti come un ologramma sul mio divano, o sarò in grado di sedermi come un ologramma sul tuo divano, e ci sembrerà di essere nello stesso posto, anche se siamo a centinaia di miglia di distanza».
(Anche Google sta lavorando a qualcosa di simile, se andate a vedere il post dello scorso 21 maggio su Telegram, troverete notizie relative al progetto Starline, lì la parola utilizzata era teletrasporto, la letteratura e la fantascienza infestano la realtà).
La prospettiva è davvero ambiziosa. E non è un caso che egli parli di Santo Graal, un po’ per definire un orizzonte, un traguardo, l’ennesima frontiera da raggiungere «entro la fine di questo decennio», e un po’ per dare alla Silicon Valley un obiettivo, anche simbolico, a tutta la comunità cui parla. E a proposito di Santo Graal, non dimentichiamo che il raduno annuale degli sviluppatori di Facebook si chiama F8, la cui pronuncia in inglese ha quasi lo stesso suono di faith, fede.
La vera sfida per realizzare il metaverso attiene alla costruzione di hardware differenti, e ha ragione Zuckerberg quando afferma che lo smartphone sia già il passato: servono occhiali, forse lenti, che contengono un supercomputer miniaturizzato in grado di «rilevare il mondo, mapparlo» e riconfigurarlo. E ovviamente, aggiungo io, una rete che non abbia latenza, insomma, ecco a che serve il 5G.
Anche perché, dice Mark, questa cosa va oltre Facebook, e una buona visione per il metaverso non è pensarlo come costruito da un’azienda specifica, ma come qualcosa di interoperabile e portabile: «hai il tuo avatar e i tuoi beni digitali e vuoi essere in grado di teletrasportarti ovunque» (di nuovo il teletrasporto…).
Se tutto questo possiede, come credo, una dose di concretezza servirà uno sforzo infrastrutturale mostruoso, «un problema che richiederà decine di miliardi di dollari di ricerca, ma dovrebbe sbloccare centinaia di miliardi di dollari di valore o più»; sforzo che trasforma una riflessione sopra un concetto, Internet incarnato qualsiasi cosa voglia dire, e gli attribuisce la sostanza di un futuro prossimo.
Zuckerberg parla di spazi pubblici, e forse – complice il rischio di smembramento – egli sta prospettando una presenza delle sue aziende, e non solo delle sue, penso a Google, non più monopolistiche all’interno di questa nuova dimensione.
È l’idea che il metaverso rappresenti lo spazio pubblico connesso in cui qualcuno si occupa di relazioni (Facebook), qualcuno di ricerca e intrattenimento (Google con YouTube, ma anche Netflix, Disney), qualcuno di commercio (Amazon magari) e altri soggetti si occupino di tanti vari aspetti dell’esistenza. Difficile oggi da immaginare, ma non impossibile.
Per la verità questo discorso di Zuckerberg riporta ancora una volta al centro il tema del linguaggio con cui definire la cosiddetta rivoluzione tecnologica, comprendendone l’essenza. Definizioni e non descrizioni: attribuire un significato, collocandolo all’interno di un confine, di una cornice. Dopotutto se chi ha contribuito a realizzare, a rendere concreta e attuale, per miliardi di esseri umani al mondo, la cosiddetta rivoluzione digitale, cioè Zuckerberg, prende in prestito una formula da un romanzo di fantascienza, significa che esiste uno spazio importante di comprensione, che è ancora vuoto, non occupato.
La difficoltà più profonda sta nel definire ciò che non è ancora e che muterà sotto i nostri dalla formulazione in questa intervista a quando ciò accadrà, tentando di coglierne le caratteristiche, i rapporti di forza. Una definizione che assecondi la metamorfosi… del metaverso.
Per concludere voglio riportarvi le parole di uno dei fondatori di Burning Man, il festival di arti che si tiene in agosto nel deserto del Nevada, e che ha definito l’infrastruttura culturale (per dirla con Fred Turner) delle techno-corporation, un discorso che ruota tutto intorno alla costruzione di analoghi.
Burning Man è diventato nel tempo lo spazio fisico – e virtuale – in cui hanno preso corpo alcuni concetti, che oggi sono stampati nella coscienza collettiva di chi lavora nella Silicon Valley.
«Realizzai che l’ambiente [Burning Man] che avevamo creato era un analogo fisico, materiale della rete. È radicalmente democratico. Consente alle persone di evocare interi mondi – tipo un sito internet – così, dal nulla. Internet è un medium per le masse e ha un modo unico di dare potere a ciascun individuo. Un medium interattivo – a differenza della tv – che consente alle persone, fuori di esso, di connettersi le une con le altre in forme nuove di comunità».
Con queste parole Larry Harvey, fondatore del festival, raccolte in un’intervista del 1999, definisce il festival e il suo calco. Egli capovolge le prospettive, cioè afferma che la realtà nel deserto sia una copia della rete e non il contrario! Il mondo si ritrae nei bit e Burning Man rappresenta un analogo fisico del web; la comunità di persone in carne e ossa che si raccoglie a fine agosto in mezzo alla sabbia è «uno specchio in cui si riflette internet stessa».
Forse dovremmo pensare a due specchi posizionati uno di fronte all’altro che si riflettono all’infinito per avere un’idea di cosa sia il metaverso.
All’epoca definivamo tutto ciò cyberspazio (ancora una parola creata da uno scrittore, William Gibson). E non è casuale che il 1999, anno dell’intervista a Larry Harvey, è anche l’anno in cui esce il film Matrix. Per entrare o uscire dalla rete, a quel tempo, serviva ancora la pillola blu o la pillola rossa, oppure una cabina del telefono. Di lì a poco avremmo portato le possibilità di accesso al web, alla matrice, nella tasca posteriore dei jeans. Tra poco, dice Zuckerberg, basteranno due lenti che contengono un supercomputer per teletrasportarci un po’ ovunque.
Se tutto questo vi sembra ridicolo, sappiate che – è notizia di quest’anno riportata da The Register – la Corea del Sud ha creato una propria “alleanza del metaverso” di aziende locali, per favorire lo sviluppo di una piattaforma nazionale di realtà virtuale e aumentata, utile ad affrontare e risolvere l’etica degli ambienti virtuali. Cho Kyung-sik, vice ministro per la scienza e per le tecnologie, ha espresso la speranza che l’alleanza assicuri che il metaverso «non sia uno spazio monopolizzato da un’unica grande azienda».
Aggiungo altre considerazioni tratte da un articolo dello scorso 28 luglio pubblicato sul canale Telegram di Disobbedienze.
Ancora sul metaverso
Il metaverso non è proprio una boutade.
Domenica scorsa vi ho raccontato che Mark Zuckerberg ha dichiaratoche presto la sua azienda non sarà più una social network company, ma una “metaverse company”, una società che ha come obiettivo quello di sviluppare il metaverso. Affermazione importante, che ha avuto conseguenze operative immediate proprio dentro l’azienda fondata da Zuckerberg.
Facebook ha creato un Gruppo di lavoro per il prodotti destinati al metaverso. Questa squadra sarà operativa all’interno dei Facebook reality labs, e cioè nella divisione aziendale dedicata alla realtà virtuale e aumentata.
L’obiettivo è quello di integrare Portal (una specie di tablet per le videochiamate) e Oculus (i visori per la realtà virtuale di proprietà di Facebook) come primi hardware che dovranno rendere possibile abitare il metaverso (non navigare, abitare).
Andrew Bosworth, a capo dei Facebook reality labs, ha chiarito: «oggi Portal e Oculus possono teletrasportarti in una stanza con un’altra persona, indipendentemente dalla distanza fisica, oppure in nuovi mondi e in nuove esperienze virtuali. Ma per ottenere una visione più completa di quello che sarà il metaverso, abbiamo anche bisogno di costruire il tessuto connettivo tra questi spazi, in modo che possano essere rimossi i limiti fisici e ci si possa spostare tra di essi con la stessa facilità con cui ci muoviamo da una stanza all’altra di una casa».
Serviranno insomma sia hardware che software.
In un articolo l’esperto di marketing e cultura digitale Vincenzo Cosenza, utilizza un’immagine suggestiva e molto efficace per definire cosa sarà il metaverso: «fruiremo di servizi e contenuti in una maniera immersiva: non useremo Facebook, ma passeggeremo dentro Facebook. Anche la relazione con le persone distanti fisicamente sarà più realistica perché avremo la sensazione di essere nello stesso posto».
Occorre a immaginare altre coordinate possibili di come sarà il metaverso, anche se si tratta di un esercizio difficile. Com’era difficile pensare all’Internet di oggi nei primi anni novanta, quando abbiamo cominciato a navigare, così oggi risulta complicato “visualizzare” il metaverso, uno spazio nato all’interno di un romanzo e destinato a essere la forma dell’Internet di domani.
La quantità di cose scritte intorno a questo concetto-ambiente è pressoché illimitata. Matthew Ball, esperto di cultura digitale, che sta dedicando molte energie e molti articoli al metaverso, ha provato a elencarne alcune caratteristiche. Secondo Ball il metaverso sarà:
• persistente, potrà operare senza fine e senza la possibilità di essere messo in pausa o essere spento;
• sincrono e live, un’esperienza che esiste per tutti in tempo reale, anche se, a sua volta, può contenere eventi specifici con un’ora di inizio e di fine;
• senza limiti di partecipanti, chiunque e in qualunque momento potrà entrarvi e rimanere a proprio piacimento;
• un’economia completamente funzionante ovvero un mondo nel quale singoli e aziende possono essere in grado di creare, possedere, investire, vendere e guadagnare;
• un’esperienza inclusiva, che coinvolgerà il mondo digitale e quello fisico, reti pubbliche e private, piattaforme aperte e chiuse;
• interoperabile nel senso che dati, oggetti digitali e contenuti prodotti in un luogo dovrebbero essere utilizzabili anche negli altri luoghi della nuova rete.
Quindi non solo realtà virtuale, ma molto di più della realtà virtuale, ecco perché Zuckerberg ha parlato di un Internet incarnato (embodied Internet).
Devo ammettere che sono molto colpito dall’assenza di attenzione e dibattito su questo tema, e sulle prospettive che l’intervista a Casey Newton lascia intravedere. Stiamo parlando di come sarà Internet da qui a dieci anni, e di conseguenza come sarà la nostra vita nel futuro prossimo.