Siamo arrivati alla fine dell’anno, come sempre, come per gli ultimi giorni di luglio, in apnea.
Abbiamo trattenuto il fiato sperando di riuscire a resistere fino all’ultimo, senza che nulla ostacolasse questa folle corsa di lavoro e di consumi. Confidando in una funzione salvifica, taumaturgica, delle ferie. Prenderemo aria, come la può prendere uno in una stanza riempita d’acqua in cui è rimasto solo un piccolo spazio libero, un’intercapedine di ossigeno, di una decina di centimetri dalla quale poter prendere fiato. Scena che avremo visto in decine di film. Prendiamo aria, sopravviviamo.
Questo blog, ad esempio, ha rallentato la pubblicazione di contenuti perché c’era poca aria per scrivere qui dentro.
Tutti coloro che incontro, in età produttiva, come si dice con espressione terribile e arida, sentono che non hanno tempo per respirare bene, che stanno col collo sollevato a prendere fiato per tentare di arrivare a un momento di stasi, proverbialmente e fisiologicamente insufficiente. Sperando che il livello dell’acqua, della pressione lavorativa, scenda un po’.
Su Disobbedienze si parla di tecnologia, che c’entra questa cosa con la tecnologia?
Un po’ di pazienza.
THE GREAT RESIGNATION
Qualche giorno fa il Wall Street Journal ha messo in prima pagina un articolo sul burnout dei lavoratori americani, American Workers Are Burned Out, and Bosses Are Struggling to Respond, quindi un articolo che parla anche degli sforzi che le aziende stanno facendo per arginare questo stato di cose. Sforzi vani, direi. La verità è che il giornale del capitalismo americano ha capito che esiste un problema serio con la quantità, e con l’intensità, del lavoro di oggi. E di conseguenza con i rischi che il sistema, nel complesso, sta correndo. (Nota a margine: un tempo l’aggettivo “americano” affianco a “capitalismo” sarebbe stato superfluo, ma oggi abbiamo il capitalismo cinese che, se parliamo di tempi e organizzazione del lavoro, prevede meccanismi molto più crudeli). Dicevo, dal punto di vista del capitalismo americano esiste un problema di non facile risoluzione: nei primi 10 mesi del 2021, oltre 39 milioni di persone si sono dimesse, hanno abbandonato volontariamente il lavoro. Numeri impressionanti, tanto che laggiù hanno definito questo immane passo indietro della forza lavoro The Great Resignation, Big Quit, la grande fuga, la grande dimissione.
Nel 1956, il giornalista e sociologo William Whyte scrive un saggio influente e illuminante, dal titolo L’Uomo dell’Organizzazione, in cui descrive i «membri della classe media che hanno abbandonato, spiritualmente e fisicamente, la loro dimora per votarsi alla vita della grande impresa», della cosiddetta Corporate America. Manager, quadri intermedi e impiegati che hanno lavorato per una vita intera nelle grandi aziende. L’adesione del lavoratore all’azienda è, e continua a essere, un tratto tipico della cultura del lavoro statunitense e dell’identità americana. Luciano Gallino, nella prefazione del 1960 a L’Uomo dell’Organizzazione, sostiene che questa adesione – sola ideologia unitaria di uno Stato per molti versi iper-frazionato – «induce (il lavoratore) ad accogliere con animo grato la prosperità offertagli dalla benevolent society».
Adesso, però, i 39 milioni di persone che hanno lasciato il lavoro, in meno di un anno, rappresentano l’ennesima testimonianza, dopo la crisi del 2008, che il modello della benevolent society è entrato profondamente in crisi.
Le cause sono molteplici certo, tra le prime la dinamica dei salari, lo stress che ha pesato su alcune categorie a causa del Covid, i risparmi messi da parte, più semplicemente il fatto che durante i primi mesi della pandemia nessuno si è licenziato.
LA YOLO ECONOMY
In un’intervista, Anthony C. Klotz, docente di psicologia delle organizzazioni aziendali alla Mays Business School in Texas, e ideatore della definizione The Great Resignation, ha proposto un’analisi intelligente: «la pausa della pandemia ha spinto a riflettere, con una conseguente rivalutazione del tempo e della qualità della propria vita. In psicologia esiste una teoria chiamata “teoria della gestione del terrore”: ogni volta che ci si sente vicini alla morte o ci si trova in una situazione estrema, si tende a fare un bilancio della propria esistenza. E così in questi ultimi mesi mi sono ritrovato, durante le mie indagini, a parlare con manager di cinquant’anni o impiegati prossimi alla pensione che mi dicevano di aver buttato anni in un ufficio e che non avevano più intenzione di continuare a farlo».
C’è chi vuole più soldi, chi più equilibrio tra vita privata e lavoro, chi intende riconfigurare tutto.
Il mondo reso piatto dalla tecnologia esibisce modelli alternativi, stili di vita inebrianti, seducenti pure se non tutti perfettamente replicabili; di sicuro si tratta di stimoli che spingono verso un cambiamento. In una nazione che ha dinamiche del lavoro profondamente diverse dalle nostre, sembra tutto più facile. E il Covid ha facilitato queste epifanie pandemiche, momenti di assoluta chiarezza in cui i quasi 40 milioni di dimissionari hanno capito che volevano cambiare lavoro, forse vita. In questo senso, il New York Times ha parlato di YOLO Economy, you only live once, vivi una volta sola.
MILIONI DI CORNEE BRUCIATE SU ZOOM
L’articolo del Wall Street Journal però va oltre la “teoria della gestione del terrore” ed è come se ammettesse, di fronte a una specifica e molto interessata classe di lettori, un problema serio. Sembra dire che le cose non possono andare avanti in questa maniera: il capitalismo così rischia di scoppiare. Prospettiva non proprio brillante, da quelle parti.
I numeri sono proverbialmente impietosi: negli ultimi due decenni, secondo una ricerca Gallup, la durata della giornata lavorativa media americana è aumentata di 1,4 ore. In un altro sondaggio di quest’anno, il 16% degli intervistati ha dichiarato di lavorare più di 60 ore alla settimana, rispetto al 12% del 2011.
Tra febbraio 2020 e febbraio 2021, secondo uno studio di Microsoft, il tempo trascorso nelle riunioni su Teams è più che raddoppiato, valore che ha continuato a salire mei mesi seguenti.
La metà delle persone, dentro Teams, risponde alle chat in cinque minuti o meno. E nell’ultimo anno le email fuori orario sono aumentate del 10% (cifra che andrebbe rivista al rialzo, secondo altre ricerche).
Come ha scritto Derek Thompson, su The Atlantic, «le cornee di milioni di colletti bianchi sono state bruciate da diversi milioni di chiamate Zoom». La stessa Zoom fatigue è ormai un elemento riconosciuto dello stress da lavoro da remoto o ibrido.
Insomma la produttività è cresciuta grazie al digitale, ma ha restituito una forza lavoro esausta. Chi può – e non tutti possono – cambia lavoro o pensa di farlo. Un sondaggio globale, sempre realizzato da Microsoft, ha evidenziato che il 40% della forza lavoro globale ha pensato di cambiare occupazione.
Negli Stati Uniti le stanno provando tutte per diminuire i casi di burnout e arginare le dimissioni: settimana lavorativa di 4 giorni (così Unilever nella sede neozelandese), divieto di mail e messaggi oltre le 15.00 del venerdì, settimane o giornate di ferie dedicate alla salute mentale, indennità una tantum di 20.000 dollari per sostenere “lo stile di vita” (Credit Suisse), l’applicazione del sistema di lavoro asincrono (lavoro quando mi pare, anche di notte).
Si tratta di un miscela di pannicelli caldi, incentivi per professionisti ricchi e work alcoholic, alcune soluzioni ardite e intelligenti e altre dai profili preoccupanti. The Great Resignation ha investito in maniera omogenea tutti i settori, con una prevalenza nella sanità e nella ristorazione, nella finanza e nella tecnologia.
Se per i primi due ambiti è comprensibile la decisione di cambiare lavoro dopo due anni di pandemia, per gli altri settori possono esserci molte altre ragioni, alcune anche legate alla YOLO Economy. Alcuni lavoratori hanno potere contrattuale e denaro per investire e scegliere di arricchirsi con le criptovalute, o aprire un ristorante ai Caraibi; altri sono in burnout e non riescono letteralmente ad andare avanti.
Di sicuro non tutte le dimissioni sono uguali: esistono squilibri nei redditi, nelle ragioni e nelle condizioni successive alle dimissioni e infine nelle possibilità che si aprono dopo. Ma questo è tutto un altro – importante – discorso.
Al netto dei privilegiati, possiamo rintracciare un elemento comune in chi è occupato nei servizi, e cioè la possibilità, largamente utilizzata per tutta questa stagione di pandemia, di lavorare da remoto. La possibilità, dunque, per il lavoratore, di farsi inseguire dal lavoro nel tempo e nello spazio un tempo privati, intimi, grazie al fatto che l’ufficio abita ormai le nostre tasche.
Siamo arrivati al cuore del ragionamento che vorrei proporvi, di cui ho già scritto in passato, ma rispetto al quale vorrei oggi proporre un passaggio ulteriore.
IL TEMPO POROSO E LE NOTIFICHE INTERNE
La diffusione planetaria del lavoro da remoto ha prodotto una mutazione del tempo che si è fatto tempo poroso. Il tempo ha cioè assunto una caratteristica di permeabilità: il tempo del lavoro e il tempo privato sono ormai vasi comunicanti, l’uno scivola nell’altro e viene riempito dall’altro, e nessuno di noi riesce più a gestire questa cosa.
Ci sentiamo sopraffatti. L’apnea di cui parlavo in apertura e che sarà complicato superare contando su una manciata di giorni.
La situazione, tra l’altro, è aggravata dal fatto che il lavoro è solo una delle tante possibili permeabilità del tempo poroso. La porosità attiene tanto al lavoro quanto alle relazioni familiari o amicali, all’intrattenimento, al commercio, alla propria intimità. E se dovessimo identificare le manifestazioni visibili di questi fattori, potremmo dire che sono le molteplici attivazioni dello smartphone e del computer che ci distraggono, che chiedono – pretendono – la nostra attenzione, a partire dalle notifiche. Il lavoro, in questo senso, è una distrazione come molte altre. Siamo arrivati a un punto in cui la nostra convivenza con le distrazioni comincia a essere preoccupante. Una persona raramente trascorre due ore senza utilizzare il proprio smartphone, di norma lo sblocca tra le 50 e le 80 volte al giorno e lo sfiora, o lo tocca, fino a 2.617 volte nelle 24 ore. Dati tratti da un recente lavoro scientifico, scritto da Hunt Allcott, Matthew Gentzkow e Lena Song, ricercatori del National Bureau of Economic Research, dal titolo eloquente: Digital Addiction.
Può essere utile allora recuperare un articolo nel canale Telegram di Disobbedienze dedicato all’utilità o all’inutilità della disattivazione delle notifiche.
Secondo Maxi Heitmayer e Saadi Lahlou, due ricercatori della London School of Economics, anche senza notifiche le persone «hanno preso l’abitudine di attivare lo schermo ogni 5 minuti circa», utilizzano lo smartphone «per strutturare la propria agenda, intrecciando altre attività con brevi pause sul telefono». Lo studio rivela che gli esseri umani sono sottoposti «pressioni sociali e professionali per verificare potenziali nuove informazioni» sul telefono. Insomma utilizzare «lo smartphone come uno “sportello unico” per stare al passo sia con le cose di lavoro che per evadere, porta a comportamenti irrequieti». Questi modelli comportamentali «sono diventati profondamente interiorizzati, automatici e si rafforzano a vicenda».
I ricercatori sostengono che, anche con i dispositivi silenziati, gli utenti sentono che i loro smartphone li stanno disturbando: è evidente che «il problema non è causato da interruzioni esterne del dispositivo, come suoni o vibrazioni, ma da auto-disturbi interni, abituali».
LA SOLITUDINE DI FRONTE AL DISPOSITIVO
Ecco questa è una delle tante forme della pressione e una delle molte cause che portano le persone a soffocare di lavoro.
Il dispositivo in sé sta polverizzando l’Organizzazione con la lettera maiuscola di cui parlava Whyte e con essa sta polverizzando il lavoro, a causa di questi “auto-disturbi interni, abituali” che si sommano a quelli esterni.
Non c’è una struttura che possa far fronte a questo stato di cose.
Non esiste un’azienda, un’istituzione, un’Organizzazione che si faccia carico della relazione squilibrata che abbiamo col dispositivo: è l’essere umano, il singolo, che deve fronteggiare l’ambiente e le conseguenze che il dispositivo gli pone di fronte. Si tratta di una situazione in cui l’uomo appare completamente isolato, solo.
Peraltro le organizzazioni hanno le armi spuntate, molto spesso per ragioni culturali, perché nemmeno arrivano a comprendere le coordinate dell’ecosistema digitale e le modalità della distrazione.
L’individualismo reso prassi e ideologia collettiva, come mai prima d’ora, dal web 2.0 (ricordate la copertina di Time in cui l’uomo dell’anno era “You”?), ecco, questo individualismo multiforme si associa spesso alla difficoltà – all’impossibilità – per l’individuo di fronteggiare un assetto in cui sperimenta tutta la sua fragilità di fronte a un potere, che quell’individualismo ha sollecitato e prima ancora creato (il web 2.0 è una creazione dell’essere umano, di una manciata di esseri umani).
Un assetto di potere in cui la persona non conta nulla, non può fare nulla. L’essere umano, quindi anche il lavoratore, non ha alcuna possibilità di volgere a suo favore le dinamiche della distrazione, tanto è evidente l’asimmetria tra chi utilizza le funzioni nell’ecosistema digitale e chi quelle funzioni le abilita, le disegna e le realizza. Tra chi le possiede e chi ne è posseduto.
Allo stesso modo, le organizzazioni e le aziende sperimentano la loro assoluta inadeguatezza e vulnerabilità di fronte a questo assetto di potere.
Tutti abitiamo una condizione in cui il lavoro e le sue notifiche, le sue armi distrattive, combattono con altre notifiche: quelle dei messaggi dei familiari, degli amici e dei social network, notifiche che, certo, possiedono intensità differenti ma sono egualmente distraenti.
Questa contesa si materializza giorno dopo giorno: le mail del lavoro sono in competizione con le notifiche delle applicazioni che utilizziamo di più: dalle previsioni del tempo ai pacchi in consegna al locker più vicino. Se abbiamo compreso il ragionamento di Maxi Heitmayer e Saadi Lahlou, significa che tutte le notifiche entrano in rotta di collisione tra loro e con le notifiche interne (quelle interiorizzate nel breve lasso di tempo trascorso dall’apparizione dello smartphone nella nostra vita quotidiana).
VITALITÀ CONTRAPPOSTE
Potremo affermare che nello spazio digitale si agitano diverse vitalità contrapposte: lavoro, intrattenimento, relazioni, servizi, bisogni che entrano in conflitto. Si parla spesso di “collasso dei contesti”, ma sto provando ad andare oltre questa definizione, e dunque oltre la crisi nella rappresentazione sui social network, che si manifesta quando un utente si relaziona con pubblici differenti. Non si tratta, insomma, delle difficoltà di conciliare un post su Instagram che sarà visto dai colleghi di lavoro e dagli amici, o dai familiari.
Parlo di vitalità in contrapposizione perché il collasso, in questo caso, è tutto interiore, scende in profondità. E ne soffriamo le conseguenze, altrimenti non saremmo arrivati al punto tale da aver interiorizzato le notifiche. La pressione che scaturisce ai danni del soggetto è immane, e ignota fino a prima d’ora, e infine anche difficile anche da rendere a parole. Ma credo sia una condizione comune a molte persone e una delle ragioni principali dei tanti casi di burnout.
La sensazione è che tutto pretenda la nostra attenzione, che tutto reclami la nostra concentrazione istantaneamente. Viviamo un continuo accendersi e spegnersi di momenti di attenzione e momenti di distrazione, in cui il nostro autocontrollo si fa sempre più flebile, la nostra capacità di resistere agli stimoli esterni e interni, alle notifiche, sempre più debole.
Si tratta, tra l’altro, di una dinamica visibile, tangibile. Ogni singola notifica è causa e testimonianza di queste pretese contrapposte, in conflitto tra loro: messaggi su Whatsapp, su Telegram, su Signal, mail, videochiamate, telefonate, richieste di Calendar o su Slack.
Però esiste uno spazio franco, libero da tensioni.
L’unico luogo che non è messo in contrapposizione con nulla è lo spazio digitale stesso: la crepa che abitiamo, il dispositivo.
L’ecosistema digitale (smartphone, computer, applicazioni, piattaforme di comunicazione e collaborazione) è l’ambiente in cui il collasso e la contrapposizione delle differenti vitalità prende forma, in cui il conflitto nasce e si sviluppa. Non lo critichiamo, non lo mettiamo di discussione mai, eppure tutto nasce lì.
L’ecosistema digitale è il luogo del conflitto, ma non l’oggetto del conflitto. Lo consideriamo un elemento dato, acquisito, non problematico.
Cerchiamo, non a caso, di trovare soluzioni lì dentro, con la speranza che funzionino. Penso alle tante applicazioni per la mindfulness, per la concentrazione, per la meditazione, ai sistemi operativi che prevedono la modalità “non disturbare”, al tentativo vano di disattivare le notifiche, insomma scorciatoie che non servono a nulla, cose così.
TUTTI I PROFITTI SONO UGUALI, MA ALCUNI PROFITTI SONO PIÙ UGUALI DEGLI ALTRI
Se osserviamo questo processo dal punto di vista delle aziende, e del Wall Street Journal, capite bene che il capitalismo è di fronte a un problema differente e ulteriore.
Chi “possiede” lo smartphone, in senso ultimo vorrei dire, e cioè le grandi techno-corporation, esprime un potere superiore a qualsiasi altra azienda “normale”. Chi possiede lo smartphone risulta indifferente al fatto che lì dentro la notifica di un messaggio di mia cugina entri in competizione con il messaggio del mio capo, risulta indifferente al conflitto e alle differenti vitalità. Le techno-corporation possiedono lo spazio in cui si produce il conflitto: si limitano a osservare, a regolare – per così dire – il conflitto.
Da un lato lo smartphone è un ufficio in tasca, dall’altro è anche una casa in tasca, il pub in tasca, lo stadio in tasca e decine di altri luoghi molteplici – e distraenti – che entrano in conflitto tra loro e con la concentrazione che richiede il lavoro. Il problema non è farsi distrarre dai colleghi per andare alla macchinetta del caffè, il problema è non farsi distrarre da tutto il resto, restare concentrati, altrimenti le aziende normali entrano in crisi.
Se il lavoratore finisce per essere stressato dalla facilità con cui viene raggiunto da tutte queste notifiche, e non riesce letteralmente a isolarsi, a proteggersi, l’azienda normale finisce per essere stressata dalla facilità con cui un suo dipendente viene raggiunto da tutte le notifiche che non sono lavorative. E quando il lavoratore – isolato – si trova in queste condizioni di stress e sente di poter dimettersi, allora si dimette. E se il lavoratore si dimette, l’azienda e il Wall Street Journal capiscono che esiste un problema serio.
Ancora una volta dovremmo ammettere che il capitalismo esprime differenti velocità e intensità, espresse da differenti tipologie di aziende. Attenzione non è la solita dinamica per cui al manifestarsi di una rivoluzione industriale rimangono sul terreno morti e feriti. Questa fase c’è già stata, c’è e ci sarà ancora.
Sto dicendo che esistono nel capitalismo degli spazi d’esercizio essenziali al capitalismo stesso, governati e posseduti da un pugno di aziende tecnologiche. Chi è vertice della piramide alimentare, chi abilita la distrazione, chi la governa, chi è sovrano dell’ecosistema digitale, chi possiede lo spazio in cui si concretizza la competizione tra quelle che ho definito vitalità differenti, e che sono anche profitti differenti, possiede un potere di gran lunga superiore a chi rappresenta soltanto una delle tante vitalità in campo, e quindi a uno dei tanti profitti differenti.
Come sempre aveva capito tutto George Orwell, e parafrasandolo potremmo dire che tutti i profitti sono uguali, ma alcuni profitti sono più uguali degli altri.
Tutto questo rappresenta un problema immane, altrimenti non si capirebbe l’attenzione spasmodica di un giornale come il Wall Street Journal per un tema simile. C’è un pezzo di capitalismo che rischia di soccombere, di entrare in burnout, a causa dei tanti lavoratori che entrano in burnout.
Questa vicenda non rappresenta un fatto inedito, abitiamo la centralità dell’ecosistema digitale da un pezzo, è solo che ogni giorno comprendiamo il valore di questa centralità un pezzo alla volta, con velocità strabilianti, e con effetti che si compiono su una scala inedita.
LE DISTRAZIONI NEL METAVERSO
Vorrei concludere con una riflessione che parte dalle premesse di questo discorso: chi governa la distrazione vince, chi disegna la distrazione vince, chi possiede il terreno in cui si agita il conflitto vince, chi non ha la possibilità di fare tutto questo rischia di soccombere.
Si capisce adesso meglio l’interessamento di Mark Zuckerberg alla costruzione di un ecosistema ulteriore, perché in quello attuale, per quanto egli abbia potere, e per quanto gli sia andata bene, egli ha meno potere di altri soggetti.
Il sui gruppo, Meta, è uno dei tanti soggetti distraenti, disegna la distrazione e in parte la governa, ma mai fino in fondo, mai in casa propria, mai al 100%. Oggi Zuckerberg ha capito che il suo governo della distrazione è a rischio e quindi occorre fare qualcosa.
Serve situare la sua azienda in un altro luogo dove egli possa trovarsi alla pari con gli altri sovrani della distrazione.
Per essere un vero sovrano della distrazione, la differenza la fa il possedere o meno un qualsiasi significativo hardware: un telefono oppure un sistema operativo che fa funzionare un telefono; insomma una qualche infrastruttura materiale o immateriale di cui si è proprietari, non bastano i dati e la capacità di distrarre.
Google e Apple sono proprietari di un telefono e di un sistema operativo, sono loro i veri sovrani della distrazione. Sono loro che consentono alla vitalità differenti di entrare in conflitto. Zuckerberg, per quanto potente e rilevante, è soltanto una delle vitalità in conflitto.
Egli ha capito quanto essenziale sia questo stato di cose, ed ecco perché insiste col metaverso e si ostina a criticare l’esperienza di navigazione attuale, quella realizzata attraverso lo smartphone, definendola «deludente», ed ecco perché egli reclama una nuova Internet incarnata. Perché l’incarnarsi dell’esperienza digitale dovrebbe o potrebbe essere la nascita e la messa in produzione su scala globale dell’ennesimo e significativo hardware: occhiali, Oculus VR, cuffie, joystick, guanti, tute; hardware e oggetti, e dunque mercati, in cui non esiste ancora chi possa dirsi dominatore assoluto. E mercati in cui Zuckerberg sta cercando di entrare e competere.
È ancora presto per capire come sarà lo stress lavorativo nel metaverso, se i lavoratori soffriranno lo stesso burnout oppure no.
Forse avremo le stesse crisi di apnea anche nel metaverso. Dopotutto sempre Zuckerberg ha da poco sviluppato uno spazio professionale, in realtà virtuale, che si chiama Horizon Worlds. E se il ragionamento fatto fin qui è sensato, egli potrà governare la distrazione di chi vi lavora soltanto quando possiederà l’hardware necessario ad abilitare o disabilitare la distrazione. Solo a quel punto egli sarà diventato un vero sovrano della distrazione e noi, invece, sentiremo mancarci l’aria anche nella “realtà” virtuale.