Il tasto pausa
(22 luglio 2020)
Non è vero che il giornalismo non abbia a che fare con la fantasia. Certo, l’immaginazione va cancellata quando si tratta di scovare, verificare e scrivere notizie, non esiste alcuna fantasia in questo senso. Soltanto rigore e accuratezza. Eppure, questa splendida qualità dell’essere umano serve quando si deve fare un giornale ogni giorno, serve a tirare fuori idee non comuni. Premessa lunga che serve a confessare l’ammirazione per un articolo del Wall Street Journal dal titolo «”Pause”: freezing the action, from tape decks to lockdowns». Un articolo sulla pausa come categoria dello spirito.
«In un momento in cui la vita normale si interrompe in vari modi, un termine che un tempo indicava il modo di fermare una cassetta sta giocando un ruolo importante». In effetti è così.
➡️ Tanti aspetti delle nostre esistenze sono in pausa. La pandemia, più di ogni altra cosa, continua a spandere a piene mani incertezza. E se c’è una cosa che la scienza ha dimostrato di non sapere comunicare è la somma incertezza di questo momento storico. Incertezza che significa sospensione, attesa, dubbio; condizioni che – in molti casi – paralizzano l’essere umano, lo mettono in pausa.
Dobbiamo allora decidere se cercare nel significato di pausa la parte di bicchiere mezzo pieno, l’intervallo cui segue una ripresa della musica; o quello mezzo vuoto, quando “pausa” si aggiunge a un altro termine e significa cessazione (andropausa, menopausa). A un certo momento la pausa si trasforma in tecnologia. In una pubblicità del 1955 per i primi registratori a bobina, il creativo aggiunge il “tasto pausa” alle diverse funzioni disponibili. Fin lì erano esistite soltanto due variabili: start e stop; vai avanti e fermati, ma in questo caso ricominciando da capo.
Negli anni 60, l’azienda Ampex (ricordo che in casa avevamo uno splendido registratore a bobine grandi, a 4 piste) inventò il simbolo della pausa: le due piccole linee verticali. Alcuni dicono sia una variante del tasto stop, mi sembra più bello immaginare che sia stato un recupero del simbolo della cesura, in poesia e in musica. Il segno era una doppia barra verticale, talvolta obliqua, che stava a significare il tempo del respiro, il tempo del silenzio.
A cos’altro, se non a una enorme cesura somiglia il lockdown?
Le città sembrano essere in pausa. Come se finalmente possano fermarsi e respirare, prendere una pausa dal caos, dall’assedio che subiscono ogni giorno. Abbiamo messo in pausa la possibilità di viaggiare, di andare lontano. Viviamo senza cesure spaziali, senza staccare l’ombra da terra.
Le metafore a volte sono meschine e insufficienti: pensate al lavoro. Qualcuno ha continuato a farlo senza pause, letteralmente. Altri hanno smesso di lavorare. La cassa integrazione rappresenta una pausa il cui esito è incerto.
Più in generale l’economia non ha un tasto pausa, sebbene qualcuno pensi che questa fase equivalga a una gigantesca parentesi. Sospiriamo sperando che l’economia non esali l’ultimo respiro. In attesa di un momento in cui potremo nuovamente spingere il tasto pausa e riavviare il nastro di un’esistenza, molto differente.
Una cosa non ha mostrato requie, perché non possiede il tasto pausa: la rete. Nel web non esiste il concetto di pausa, perché non esiste il silenzio digitale. Il movimento dei bit, e per equivalenza delle nostre parole, immagini ed emozioni, appare instancabile, inarrestabile, un furioso divenire. Un gigantesco termitaio.
Come fare allora per metterlo in pausa? L’unica possibilità sembra essere quella di tornare al passato, al tasto stop. Un tasto che quindi non interrompa il movimento nel quale sia immersi ma che ci estragga da esso, ci tiri fuori completamente da quel vortice. Che spenga tutto e metta un punto fermo.
La casa di QAnon
(25 luglio 2020)
Pochi luoghi, come il web, ospitano in maniera tanto naturale teorie della cospirazione. Ciascuna trova uno spazio, una coda lunga, scova un proprio pubblico piccolo (o grande a piacere).
La vastità dell’ambiente digitale, in termini dimensionali e di libertà assoluta, offre a chiunque una tribuna pubblica o segreta in cui presentare la propria visione del mondo.
Luoghi come 4chan oppure 8kun, siti in cui le persone si scambiano immagini – letteralmente – di ogni genere, anche le più raccapriccianti, sono teatri in cui l’eco della cospirazione si diffonde. Con una prima considerazione: una volta che la sfera della cospirazione è stata lanciata nello spazio digitale, non esiste attrito che possa fermarla: essa continuerà a correre, a reclutare adepti, a sedurre.
QAnon è una enorme, fantasiosa, longeva teoria della cospirazione che prende le mosse da Q. È lui il cantore anonimo di questa vicenda che ha tutti gli ingredienti per ammaliare chiunque.
Partiamo allora dal protagonista: Q sarebbe un vero patriota, un ufficiale dell’intelligence dotato di nulla osta per accedere a segreti ben custoditi, uno che sa come stanno le cose, che lavora dietro le quinte, uno che ha deciso di raccontare la verità al mondo.
Lo fa su 4chan e su 8kun.
Q ha svelato una storia semplice e torbida: alcuni politici democratici, a partire da Hillary Clinton e Obama, legati ad altri leader mondiali, su tutti Soros ma c’è anche Tom Hanks, governano il mondo e controllano i media e Hollywood. Adorano Satana e hanno messo in piedi un orrido traffico di bambini nel seminterrato di una pizzeria di Washington DC, dal nome Comet. Insomma esiste una cricca di pedofili ben annidata nel deep state (lo Stato profondo nel senso di segreto, occhiuto, pericoloso e illiberale; l’uomo che fumava nella vecchia serie XFiles), una élite corrotta e malvagia che tiene sotto scacco l’America e dunque l’umanità.
📌 Sarebbe andato tutto bene se Donald Trump non fosse diventato presidente. Lui ha scoperto l’esistenza della cospirazione, e adesso combatte e resiste, insieme a un gruppo di americani illuminati, contro questa immane cricca.
Per fortuna tra poco arriveremo al redde rationem e ci «godremo lo spettacolo» del «Grande Risveglio», una specie di apocalisse in cui tutti prenderanno coscienza della cospirazione. Anche grazie al Covid19, tipica creazione della cabala (a dispetto del significato, questo è il nome della congrega di pedofili), stiamo per assistere alla Tempesta (The Storm) che spazzerà via i cattivi. I quali verranno arrestati e trasportati nella prigione di Guantanamo. Poi dopo, finalmente, i militari prenderanno il potere.
Trump in più occasioni ha evocato QAnon, senza citarlo apertamente, ha parlato davanti ai giornalisti di «quiete prima della tempesta». E ben 60 candidati al Congresso degli Stati Uniti, nelle ultime elezioni, pensavano che la cospirazione fosse una cosa vera, reale.
Volendo ci sarebbe molto da raccontare (fatemi sapere se vi interessa che l’antologia delle ipotesi emerse da QAnon è una incredibile fiera dell’assurdo).
Nel 2016 un tale è entrato con un kalashnikov nella pizzeria in cui l’internazionale pedofila organizzerebbe i loschi traffici; il tale in questione ha sparato qualche colpo ma per fortuna non ha ucciso nessuno. Un altro tizio è stato arrestato dopo aver parcheggiato un camion blindato pieno di armi sulla diga Hoover, al confine tra Nevada e Colorado.
📌 Ma perché ne parliamo qui su Disobbedienze?
Perché una tale messa in scena non poteva esistere, in tutta la sua grandezza, in un luogo diverso dal web. Un tempo le cospirazioni avevano bisogno di testi clandestini che passavano di mano in mano, di resoconti orali e passaparola che si infrangevano nei limiti fisici, oppure di catene che si interrompevano con la morte di uno degli anelli o per la distanza geografica degli iniziati. Adesso la meraviglia della rete sta nel fatto che non esiste alcun confine alla possibile diffusione di QAnon e alla costruzione dei diversi livelli, esoterici, del linguaggio alla base della cospirazione stessa.
Tutto questo ha generato centinaia di migliaia di account nei social network tradizionali e non, tipo Gab (social che ospita per lo più nazisti, suprematisti, antisemiti) ma anche blog e siti che alimentano questo racconto allucinato.
Twitter, nei giorni scorsi, ha bloccato 7000 account, ha limitato la portata e quindi la diffusione di altri 150.000 (centicinquantamila!).
Insomma esiste un vero e proprio movimento che oggi conta su leader politici e non solo. Parliamo di un attivismo diffuso, figlio vivace di un racconto potente e dettagliato, coltivato e nutrito per anni nello spazio digitale. Che però, a un certo punto, è uscito dalle grotte di 4chan e 8kun, fluendo nella politica e nel giornalismo mainstream.
Uno dei leader di questo movimento, tale David Hayes, vende libri a tema QAnon su Amazon, definisce Q (con un tweet ancora visibile) una operazione di intelligence open source (ossimoro splendido) e gli attribuisce un carattere religioso e teleologico: il Grande Risveglio.
Un’altra caratteristica interessante è la costruzione di Q come dell’ennesimo mito anonimo che coltivala sua fama nello spazio digitale, da Anonymous a Banksy, a Satoshi Nakamoto, il creatore di bitcoin.
📌 Ma la qualità più interessante di Q risiede nel suo modo di gestire la propria community. Di fondo, indipendentemente da chi egli possa essere, incarna uno straordinario social media manager.
Ogni messaggio di Q sollecita emozioni, racconta storie, offre valuta sociale da spendere nella propria cerchia, ogni post contiene interrogativi e punti da unire per tracciare disegni nascosti, ma soprattutto propone una call to action; insomma tutti gli elementi che rendono un post virale.
Come ha scritto Walter Kirn su Harper’s Bazar: «il pubblico delle narrazioni su Internet non vuole leggere, vuole scrivere. Non vuole risposte preconfezionate, vuole cercarle. Non vuole sedersi ed essere divertito, vuole essere mandato in missione. Vuole fare».
E con tutta evidenza, l’azione con cui Q si rivolge a questo suo pubblico è l’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti.
Quanto valgono i dati delle tue corse?
(27 luglio 2020)
🔴Qualche giorno fa mi scrive un amico: «hai visto che è successo a Garmin? Anche loro sono una techno-corporation!»
La vicenda è semplice: l’azienda, leader nelle tecnologie GPS per sport, auto, nautica e aeronautica, è finita nel buco nero di un ransomware, e cioè di un ricatto informatico. Un attacco in grande stile, come scrive Arturo di Corinto su Repubblica, grazie a quel «tipo di software malevolo che una volta introdotto nei sistemi informatici del bersaglio è in grado di bloccarne il funzionamento o di cifrarne i file (detti cryptolocker) rendendo impossibile l’uso dei dati in essi contenuti fino al pagamento di un riscatto (il ransom, appunto) in criptomonete». O Garmin paga, e parliamo di un riscatto a 6 zeri, oppure l’azienda non potrà tornare a utilizzare i suoi server, e gli utenti-clienti dovranno scordarsi per un pezzo i suoi servizi. Si tratta di un crimine informatico molto frequente che riguarda anche persone comuni, per le quali il prezzo da pagare è ovviamente più basso, ma l’esito è lo stesso. O paghi o non potrai più accedere al tuo computer che è tecnicamente inutilizzabile.
Il sistema Garmin Connect, ad esempio, uno dei più utilizzati dagli sportivi ora è bloccato e gli atleti non hanno modo di confrontare i propri risultati con altri.
Se l’azienda non paga, come suggerisce in questi casi l’FBI, non si sa quello che potrà accadere. Qualunque scelta è pericolosa per una società quotata a Wall Street che fattura 3.3 miliardi di dollari l’anno e ne vale in borsa poco più di 18. Il rischio è una fuga in massa degli utenti-clienti verso lidi più sicuri come Runtastic o Strava (che pure aveva mostrato problemi di sicurezza).
Ma come funziona un’azienda di questo genere? Intanto vende dispositivi che offrono sistemi di navigazione, e a questi dispositivi connette applicazioni che tracciano itinerari, performance e dati sanitari di chi utilizza. Insomma un mix di hardware e software. Tra i 5 grandi segmenti in cui è presente, fitness e outdoor pesano più del 50%, rispetto ad automotive, barche e aerei. Insomma Garmin guadagna grazie agli orologi che utilizzano runner, ciclisti ed escursionisti.
Quando gli utenti utilizzano i dispostivi, i dati generati dalle loro attività servono a nutrire altri servizi, altre funzioni. Pensate alle app Salute che ormai sono presenti in quasi tutti gli smartphone. Dati che poi possono essere ceduti, analizzati e commercializzati per sviluppare altre e differenti tecnologie. Nel 2014 un’indagine della Federal Communication Commission aveva scoperto che 12 app di fitness avevano “ceduto dati a 76 terze parti”, cioè ad aziende che li usavano per altri fini.
📌Questa vicenda rappresenta l’emblema di quello che può accadere a una grande techno-corporation di settore, se finisce nei guai, se emerge un qualsiasi problema legato alla sua tecnologia. Pensate ai dati degli utenti, dati che gli utenti hanno ceduto più o meno gratuitamente, più o meno consapevolmente. Che in una situazione simile svaniscono, evaporano. Chi fa sport, anche non agonistico, in questi giorni si ritrova senza la propria storia di competizioni, senza record personali, calendario degli allenamenti e dati sanitari, senza – detto in altri termini – la base tecnologica che alimenta sempre di più molte passioni sportive.
Si può vivere anche evitando di usare queste applicazioni, ci mancherebbe.
Ma in situazioni simili, inevitabilmente finiamo per chiederci quale sia il prezzo che siamo disposti a pagare quando questi dati, che dovrebbero essere nostri, che sono letteralmente noi, svaniscono. Non un prezzo economico, ma un prezzo di altra natura.
Inchinarsi di fronte a un imperatore digitale
(31 luglio 2020)
Avrete tutti visto la foto della videoaudizione dello scorso 29 luglio: i grandi capi di Amazon, Google, Facebook e Apple sono stati ascoltati – ma sarebbe meglio dire interrogati – davanti a una commissione del Congresso degli Stati Uniti.
Vi propongo una sintesi e qualche chiave di lettura di quanto è accaduto.
Il tono delle domande è stato piuttosto aggressivo. Per capirci, David Cicciline, democratico del Rhode Island, ha aperto le danze così: «i nostri padri fondatori non si sarebbe mai inchinati di fronte a un re. Allo stesso modo non dobbiamo inchinarci noi davanti agli imperatori dell’economia digitale».
Se non avete mai seguito una di queste sedute, fatelo. Le domande – anche le più apparentemente ingenue e quelle poste da chi ignora di cosa si stia parlando – sono ostinate, dure, ostili.
Le accuse rivolte ai 4 boss sono le solite: abuso di posizione dominante, creazione di monopoli grazie alle acquisizioni, censura, disinteresse verso le fake news. In buona sostanza: il potere e come vengono utilizzati i dati che le techno-corporation raccolgono dagli utenti. In ballo c’è la sopravvivenza di queste aziende nella forma che hanno oggi.
I democratici le accusano di essere troppo grandi. I repubblicani di silenziare nella conversazione online gli argomenti dei conservatori. Entrambi gli schieramenti sono d’accordo nel dire che le aziende della Silicon Valley hanno troppo potere.
📌E quindi?
Meritano di andare avanti con l’assetto che hanno oggi?
Meritano di essere divise in più parti?
Qualcuna di esse lo merita più di altre?
Rispetto alle audizioni del passato (hanno appreso la lezione di Cambridge Analytica), i CEO di big tech hanno mostrato un atteggiamento e un profilo differente.
1. Non sono rimasti sulla difensiva, anche quando sono stati attaccati con maggior vigore;
2. Hanno puntato molto sul valore per l’America del loro modello di business, soprattutto in relazione a minacce esterne. Zuckerberg lo ha detto chiaramente: se le aziende della Silicon Valley, e loro quattro nella fattispecie, non continuano a innovare, qualcuno ne prenderà il posto. Traduzione: lo faranno i cinesi;
3. Grazie alle techno-corporation le aziende americane piccole e medie prosperano;
4. Non conta quanto siamo grandi, non conta se e quanto siamo monopolisti, conta la soddisfazione del cliente;
5. Infine, ricordatevi che il mercato globale è più vasto delle nostre dimensioni.
Alcune considerazioni:
⁃ L’audizione fa molto effetto su di noi, come ho già detto, soprattutto dal punto di vista retorico. Costituisce il classico esempio di messa cantata della politica americana. In cui tutti mostrano i muscoli che hanno per le competizioni cui sono destinati. La politica pensa alle elezioni, le aziende alla competizione globale (e comunque mancano meno di 100 giorni alle presidenziali).
⁃ Nonostante tutto la Silicon Valley esprime ancora una leadership americana indiscussa in un settore in cui sta emergendo una enorme competizione cinese (ne ho scritto ampiamente lo scorso autunno).
⁃ Le connessioni di questo settore con con un tema essenziale per il discorso pubblico statunitense, come quello della “sicurezza nazionale”, sono molteplici. Come diceva Roosevelt dei militari sudamericani addestrati dagli americani: «sono dei figli di puttana, ma sono i nostri figli di puttana».
⁃ Ieri Amazon, Apple e Facebook hanno esibito i risultati da record ottenuti negli ultimi mesi di pandemia. Oltre le attese. Il Wall Street Journal, che comunque non è tenero verso le techno-corporation, ha scritto: «i giganti della tecnologia sono diventati ancora più indispensabili in un momento in cui le persone vivono e lavorano più online». Amen.
⁃ Non è facile prevedere cosa accadrà. Ma se dovesse prevalere la linea di attacco contro big tech ci dovremo preparare a un’aspra battaglia politica e legale in Congresso. Amazon ha speso 4.5 milioni di dollari nel primo trimestre del 2020 per fare attività di lobby. Facebook l’anno scorso quasi 17 milioni, Google poco meno di 12. Per capirci, la NRA (National Rifle Association, la lobby dei produttori di armi) nel 2019 ha speso 3 milioni di dollari.
➡️ PS. L’accusa di avere troppo potere fa riflettere se pensiamo a come vengono descritte le techno-corporation qui da noi. Con quell’atteggiamento sempre a metà tra l’adorante e il cinico. Ricordo che in pieno dibattito sull’app Immuni, molti scrivevano che era meglio affidare i propri dati a Google e Apple perché queste aziende non detengono il monopolio dell’esercizio della forza, come uno Stato. Come lo Stato italiano.
Considerazione classica, e da somari, di chi pensa che il potere abbia forme e sostanza immutabili.
Bastone e carota
(3 agosto 2020)
🔴Fino a ieri pensavamo tutti che Donald Trump avesse deciso di sbattere la porta in faccia a TikTok. Che volesse vietare l’app di social network sul territorio degli Stati Uniti, come ha fatto qualche settimana fa l’India (ne ho parlato qui su Disobbedienze).
Poi, dopo aver ascoltato i suoi consiglieri che l’hanno avvisato dei rischi legali di una operazione simile, Trump ha deciso che è meglio se TikTok lo compra qualcun altro. Un’azienda. Anzi, una grande azienda americana: Microsoft.
E dopo una chiacchierata con Trump, il CEO di Microsoft, Satya Nadella, ha confermato l’interesse e ha detto che entro il 15 settembre si arriverà a un punto fermo: o si compra o si chiude la trattativa.
Sembra una soluzione che accontenta tutti: la Casa Bianca, il venditore (più o meno), il compratore, il pubblico.
➡️ Prima il bastone di Trump e poi la carota di Microsoft.
Considerazioni veloci:
• Il dominio globale degli Stati Uniti sui social network è pieno e incontrollato. • Senza una techno-corporation che metta sul piatto i denari, pure il Presidente degli Stati Uniti sembra impotente. Anche se il suo potere di interdizione è mostruoso.
• Il capitalismo deve conservare le apparenze, e quindi serve mostrare lo scalpo di una compravendita (se la vicenda si fosse svolta in Italia avrebbero nazionalizzato TikTok).
• Tutta questa storia è molto lontana dal concetto di libero mercato. Prima che Microsoft scendesse in campo, per capirci, Trump aveva deciso che TikTok non avrebbe potuto operare in America, perché secondo lui era un pericolo per la sicurezza nazionale. Prove poche, anzi zero. La questione è politica: TikTok è cinese. E come la Cina ha vietato Google, Facebook, Whatsapp e Instagram, così Donald Trump ha deciso di rispondere allo stesso modo. Porta in faccia. Nulla di sconvolgente.
• Nella guerra commerciale con la Cina, Trump – anche se mugugnerà, perché Bill Gates non è amato dalla sua base (sarebbe Gates ad aver creato in laboratorio il nuovo Coronavirus) -, dicevo, Trump segna un punto importante. E ha già cominciato a dire, da vecchio venditore qual è, che se l’affare va in porto, il ministero del Tesoro USA merita una percentuale (non è una battuta, l’ha detto davvero). E non ha nemmeno tutti i torti: il prezzo di vendita e la stessa vendita sono stati, e saranno, fortemente condizionati dal fatto che il governo degli Stati Uniti stava per vietarli sul suolo americano.
• Non so quale possa essere una rappresaglia cinese, ma ci sarà.
• Negli ultimi anni il CFIUS, Comitato intergovernativo per gli investimenti esteri negli USA, ha bloccato molte volte operazioni di vendita di aziende americane a soggetti stranieri, per lo più cinesi. È il caso di società come Qualcomm (semiconduttori), Grindr (un Tinder per LGBT), PatientsLikeMe (community di pazienti; date un occhiata al sito è molto interessante). Per farvi un’idea, fino a qualche tempo il CFIUS di solito bloccava la vendita di aziende legate al mondo dell’intelligence, oppure impegnate in commesse militari. Adesso il rilievo dello spazio digitale è tale che vengono bloccate vendite di società che operano in questo ambiente.
• Microsoft, sotto la guida di Satya Nadella, diventa un player sempre più importante nello spazio digitale. Sta mutando pelle: da un’azienda che vendeva sistemi operativi e software, a rivale di Alphabet e Facebook. Se l’acquisizione va in porto Microsoft possederà oltre a TikTok anche LinkedIn, GitHuB (una piattaforma per sviluppatori) e Minecraft (videogame da 112 milioni di giocatori).
• L’Europa?
• Se avete tempo, leggetevi questo splendido intervento sul Financial Times di una ex ambasciatrice USA, la quale critica brutalmente il desiderio di sovranità digitale europea promosso da Ursula von der Leyen (ne parla male per i motivi sbagliati: l’idea stessa di sovranità digitale promossa da chi non ha poteri, se non quello di fare multe nello spazio digitale – come l’Europa – è un potere ridicolo). Charlen Barshefsky, questo il nome della diplomatica, sostiene che l’Europa si deve mettere accanto agli Stati Uniti e sostenerli, dal momento che la politica cinese è pericolosa. Anzi pericolosissima, fondata com’è sul «controllo statale e del Partito comunista cinese. Insomma: «gli europei devono invertire la rotta prima che il danno economico e geopolitico non possa più essere riparato». Giusto per capire la grammatica della politica estera e commerciale USA su questi temi.
Fare shopping sul sito di Repubblica
(6 agosto 2020)
🔴 Ci siamo.
La convergenza tra piattaforme differenti, dalle finalità differenti, alla lunga produce somiglianze. BuzzFeed (guai a chi non lo conosce, è l’inventore del giornalismo pensato per essere condiviso nei social network; il suo creatore Jonah Peretti è uno dei massimi esperti di vitalità al mondo), dicevo BuzzFeed ha cominciato a vendere prodotti direttamente. In un sito dedicato esclusivamente allo shopping. Mascherine, abbigliamento, piscine di plastica, dentro c’è di tutto. Una via di mezzo tra una piccola Amazon e una piccola Instagram, dipende dai punti di vista. Se ci concentriamo sul lato dell’esperienza di acquisto, il riferimento alla creatura di Jeff Bezos è naturale.
BuzzFeed mette a disposizione delle aziende 125 milioni di utenti al mese. Non più un pubblico cui offrire pubblicità, ma utenti da indirizzare verso un imbuto di acquisto (si chiama funnel) che si chiude all’interno dello stesso BuzzFeed, e in cui l’utente non esce più dalla piattaforma, che da giornalistica diventa anche di e-commerce.
Se osserviamo la novità dal punto di vista di un social network, come Instagram, invece BuzzFeed rappresenta un super influencer collettivo, editoriale.
Una Chiara Ferragni che distribuisce le sue attenzioni a molti più prodotti alla volta. Ma come vedremo più avanti, in questa storia Instagram è ancora più importante.
Non c’è da stupirsi di questa evoluzione. Chiunque oggi deve ammettere che un esperimento editoriale è di successo solo se riesce a costruire una comunità di lettori attorno al proprio marchio, attorno alle notizie che propone. Alcuni giornali – Wall Street Journal o New York Times – monetizzano questa relazione, grazie agli abbonamenti digitali; altri, come BuzzFeed, non si limitano alla pubblicità ma cominciano a offrire alla propria comunità prodotti per la vendita diretta.
A spingere in questa direzione è stato un cambio di atteggiamento delle persone, un mutamento di cui le techno-corporation si sono accorte negli ultimi tempi. Gli utenti sono sempre più disposti ad acquistare un prodotto semplicemente dopo averne visto la foto.
Al cambio di atteggiamento ha corrisposto un mutamento di paradigma: Instagram, il social network delle foto, è diventato nelle parole di Sheryl Sandberg – Chief Operating Officer del gruppo Facebook – un «negozio visivo su dispositivi mobili».
Il social di proprietà di Mark Zuckerberg ha infatti deciso di vendere prodotti nel suo recinto: una vendita in cui l’intera esperienza di acquisto si perfeziona appunto tutta lì dentro, attraverso una funzione che si chiama checkout on Instagram.
Attenzione > interesse > desiderio > azione; in questo modo il linguaggio del marketing descrive il percorso.
E cioè: guardo le foto, un’immagine, e quindi un prodotto, richiama la mia attenzione, emerge un mio interesse e di qui una molla fa scattare il desiderio (questo è il passaggio più complicato, che alcuni chiamano in rete chiama ZMOT, zero moment of truth, il micro-momento zero della verità) desiderio dal quale poi decido di passare all’azione, di acquistare.
Il fatto che possa fare tutto dentro il social network, guardare, decidere, pagare, rende l’esperienza più comoda, pratica, essenziale. Rende più semplice cogliere il momento zero della verità in cui un consumatore passa alle vie di fatto, all’acquisto.
Perché questa vicenda merita attenzione?
⁃ Intanto perché sancisce la permeabilità di ambienti differenti nello spazio digitale, dai social network al giornalismo.
⁃ Poi perché – laddove ce ne fosse ancora bisogno – stabilisce la centralità della tecnologia che orienta comportamenti, scelte commerciali e dinamiche informative e quindi socio-culturali.
⁃ E infine perché una parte consistente della grammatica giornalistica digitale – anche in Italia, soprattutto in Italia – è figlia di BuzzFeed.
I quotidiani online che mostrano elenchi di posti da vedere, che propongono le 10 cose da fare, da sapere o da leggere, che costruiscono gallery di gatti con la permanente o cani che ci rimangono male quando vengono sgridati, che si mettono in cattedra e di qualunque argomento offrono la versione “spiegata bene”, bene, tutti costoro hanno semplicemente imparato e poi applicato la lezione di Jonah Peretti, cioè di BuzzFeed. E cioè di un giornalismo in cui la componente social risulta essenziale per trainare numeri, per drenare pubblico. Un articolo dal titolo “Le 10 cose da sapere su Beirut dopo l’esplosione”, postato su Facebook, avrà molto più successo, più reazioni e più click, di un titolo piatto, tradizionale.
➡️Per la verità oggi BuzzFeed è evoluto (mentre i nostri sono fermi alle colonne di destra senza nemmeno più le colonne di destra, ve le ricordate le colonne di destra dei quotidiani vero?). Accanto ai gatti e agli elenchi, BuzzFeed pratica anche un buon giornalismo, in acque sempre agitate ma almeno tenta l’innovazione. E il tentativo dello shopping va in questa direzione.
Non sappiamo dire se avrà successo. Ma se tra qualche mese vedrete Repubblica che vende un pavone gonfiabile con cui buttarsi in piscina, saprete da dove viene.
Le folle senza scopo e il telos algoritmico
(9 agosto 2020)
Da tempo leggo con piacere una newsletter di un bravo e giovane giornalista italiano, si chiama Francesco Oggiano. Spesso trovo spunti interessanti di riflessione. Qualche giorno fa egli ha sintetizzato un dialogo tra due intellettuali-influencer americani in cui uno dei due – tale Ben Shapiro, conservatore ma anti-Trump – affermava che per la prima volta nella storia «i social network in generale, ma in particolare Twitter, hanno creato una folla senza scopo».
Affermazione impegnativa ma soprattutto seducente. E ha aggiunto che, dall’origine della vita umana fino agli anni ’10 di questo secolo, sono sempre esistite folle con uno scopo comune. Meglio, che il fine delle folle costituiva un elemento fondante, imprescindibile della folla. «L’unica ragione per cui ti presentavi in una folla era perché la folla aveva uno scopo. Andavi In chiesa, con l’obiettivo comune di sentire messa. Entravi dell’esercito con un obiettivo comune, andavi a una festa con un obiettivo comune». Adesso esisterebbero masse senza scopo.
Sembrerebbe proprio così: entriamo dentro Twitter la mattina e decidiamo cosa fare, dire, pensare, in base a ciò che è trending topic.
«La gente si alza la mattina – dice Shapiro – e ha voglia di interagire con altre persone. E pensa: “Ok siamo tutti qui. Guarda, lì qualcuno ha detto qualcosa. Ecco, lì c’è uno scopo comune”». Ripeto, l’affermazione ha un potere di seduzione importante. L’idea che la conversazione nei social network sia espressione di libertà di pensiero e di azione appartiene alle convinzioni diffuse. Convinzioni che sono figlie dell’opera di mitopoiesi messa in piedi dalle techno-corporation californiane. La costruzione di un racconto condiviso in cui l’obiettivo di una piattaforma è «dare alle persone il potere di condividere e rendere il mondo più aperto e connesso», nelle parole della vecchia missione aziendale di Facebook, poi mutata in «dare alle persone il potere di costruire comunità e rendere il mondo più unito». Un racconto che esalta la libertà in uno spazio di libertà. Il massimo del libero arbitrio possibile, da qui nasce il concetto ratificato da Shapiro.
➡️ Essere senza scopo equivale a potersi scegliere uno scopo al giorno, a poter scegliere qualunque scopo.
L’idea di Shapiro è profondamente sbagliata. E la ragione è semplice: all’interno dei social network le persone agiscono sulla base di prescrizioni algoritmiche. Il libero arbitrio, lì dentro, è condizionato e plasmato, e quindi smette di essere tale. Vedo e interagisco con utenti e contenuti determinati dall’algoritmo. Non ho alcuna libertà di scelta, in questo senso. Se pure posso decidere di interagire con tizio o con caio, alla fine (cioè a ogni riavvio dell’applicazione), nello spazio sociale digitale sul complesso delle mie scelte e dei miei fini prevale la norma algoritmica. D’altronde abito una regione in cui ho poteri condizionati, abilitati. E anche laddove fossi originariamente privo di uno scopo (questa affermazione contiene innumerevoli vulnus), nel momento esatto in cui accedo al social network me ne viene assegnato uno.
L’ananke algoritmica è segreta nei particolari, ma tanto evidente quanto necessaria rispetto al piano generale.
I miei interessi, i miei stati d’animo, la mia attenzione tutti questi elementi sono orientati, modificati, corretti dalla mia semplice presenza all’interno della piattaforma.
📌Non che non esista uno scopo, ci mancherebbe, esso esiste, è sempre lo stesso ed è assegnato dalla piattaforma all’essere umano, e consiste nel rimanere dentro la piattaforma per più tempo possibile.
📌Il fine ultimo è massimizzare la permanenza di un uomo e di una folla di uomini all’interno di quel giardino recintato che è un social network, affinché la piattaforma possa realizzare ogni minima possibilità di guadagno. Ecco perché è impossibile l’assenza di scopo. Perché ve n’è un altro ben più importante che assume di sé quelli degli uomini; i quali, di conseguenza, possiedono scopi (in numero indefinito), in totale inconsapevolezza.
Per assolvere a questo scopo supremo – vero telos della vita algoritmica – mi vengono proposti-imposti scopi intermedi: interagire con tizio o con caio, destinare attenzione a un contenuto, irritarmi, commuovermi, reagire, sentire il bisogno di riavviare l’applicazione. Ogni contenuto che io vedo è orientato al fine supremo, e anche negli scopi intermedi la nostra capacità di scelta è minima, quasi nulla. Minima, quasi nulla.
Per semplificare potremmo dire che inciampiamo in uno scopo ogni volta che apriamo l’applicazione del social network; in realtà – e che il paragone non sia blasfemo – una macchina decide quale sia la pietra d’inciampo, il contenuto di inciampo. Questo ci appare come generatore di uno scopo che scegliamo liberamente, di uno scopo che orienta la nostra azione, le nostre parole. Laddove, nella sostanza, non lo è.
➡️ Ogni nostro comportamento risulta attivato dalle funzioni che l’algoritmo decide di attivare, di abilitare, di volta in volta. Se fossimo davvero senza scopo, se fossimo completamente liberi di scegliercene uno, dovremmo ammettere anche la possibilità di rimanere senza scopo, la possibilità di sospendere lo scopo. Passatemi il paragone: dovremmo ammettere una specie di agnosticismo digitale. Nulla di più lontano dalla realtà.
Purtroppo confondiamo ambienti dalle grammatiche profondamente differenti.
Se fosse come dice questo Shapiro, un social network sarebbe come una strada affollata di persone senza interessi, e quindi senza uno scopo (ripeto, già questa è un’affermazione leggerina), che entrano in questa strada e, sulla base di ciò che ascoltano e vedono, decidono di agire. Metafora facile. Ma ricordate che quanto le persone vedono e ascoltano per strada lo decide una macchina. Sulla base di interessi della macchina, per finalità – scopi – della macchina. E la macchina possiede sempre uno scopo.
Per concludere: l’uomo che abita lo spazio della macchina viene nutrito da questa anche rispetto ai propri fini ultimi, almeno finché è lì dentro.