Parlare di pubblicità nell’ecosistema digitale a volte significa infilarsi in un universo tecnico complicato. Un ambiente distante, che sembra irrilevante, che influisce poco sulla nostra vita. Al contrario: non c’è nulla di più importante per cogliere l’essenza delle grandi techno-corporation che il loro dominio nella pubblicità digitale. Google e Facebook sono tra le aziende più grandi del pianeta, perché sono le due più grandi aziende di pubblicità digitale del pianeta, perché hanno messo l’intelligenza artificiale al servizio della pubblicità digitale, per vendere prodotti predittivi basati proprio sulla profilazione degli utenti. Della vostra profilazione in un mercato di comportamenti. I vostri comportamenti.
Qualche tempo fa ha fatto molto scalpore la decisione di Google di cancellare i cookie di terze parti dal suo browser Chrome. Il motore di ricerca ha cioè eliminato un sistema di tracciamento utile a profilare gli utenti per vendere loro pubblicità, un sistema basato sui siti visitati dall’utente: a fronte dei miei interessi, se ho cercato magliette di cotone o se ho navigato in siti per informarmi sul titolo di un libro, nel corso della mia successiva esperienza di navigazione mi ritrovo una pubblicità di venditori di magliette e di venditori di libri.
La decisione di Google, presa all’insegna della difesa della privacy degli utenti, sembrava cambiare il paradigma con cui si vende pubblicità online.
Ovviamente quando si tratta di Google c’è sempre da controllare le mosse successive per capire la ragione profonda di una scelta. In questo caso i cookie sono stati abbandonati per mostrare al mondo, e ai tanti che accusano il motore di ricerca di essere un monopolista indifferente alla tutela degli utenti, che le cose non stavano così. Anzi.
A gennaio di quest’anno è comparso, sul blog aziendale, un primo annuncio: «costruiamo un futuro della pubblicità sul web centrato sulla privacy».
Chetna Bindra, product manager dell’azienda che si occupa di questi temi, utilizza l’espressione privacy-first. E cioè quello slogan che indica una strada intrapresa nella Silicon Valley, una strada senza ritorno; un po’ come mobile-first o remote-first, espressioni che stanno a significare che la navigazione ormai avviene per lo più da smartphone, oppure che il lavoro si farà per lo più da remoto.
Adesso, a proposito di privacy-first, la notizia è che meno di un mese fa, due milioni di utenti di Chrome si sono registrati – a loro insaputa – per un esperimento in cui Google ha cominciato a testare il funzionamento di un nuovo sistema. Proprio quel nuovo sistema di pubblicità centrato sulla privacy, il cui nome è Federated Learning of Cohorts, e l’acronimo FLoC. Non male come inizio: testare un aggeggio pubblicitario talmente rispettoso della riservatezza degli utenti, che gli utenti stessi non lo sapevano; anzi, non lo sanno ancora oggi. L’obiettivo – esplicito – di Google è trovare una soluzione meno invasiva rispetto ai cookie. E presto questo test smetterà di essere una prova, e verrà esteso al resto del mondo: a chiunque utilizza Chrome (più avanti faremo i conti di quanti siamo).
Cominciamo col dire che con FLoC l’utente non si accorge di nulla: tutto accade dentro al browser, dentro Chrome. Quest’ultimo si trasforma in una specie di terminale dove gira un algoritmo, che si chiama SimHash, utile ad attribuire a ciascun utente un’etichetta comportamentale.
La principale differenza – l’unica sostanziale, insieme ad altre meno rilevanti ma estremamente tecniche – è che prima il sistema dei cookie pedinava il singolo utente in tutta la sua esperienza di navigazione, e quindi forniva indicazioni individuali circa la natura degli interessi, mentre FLoC lo fa sui gruppi.
FLoC analizza e categorizza l’utente, non come singolo, ma lo inserisce all’interno di un gruppo, all’interno di una Coorte di persone che hanno manifestato i suoi stessi interessi e comportamenti, nell’ultima settimana di navigazione. FLoC studia e classifica le tue scelte di navigazione, ti assegna un’etichetta comportamentale contraddistinta da un numero (ID FLoC), e quando entra in contatto con un rivenditore di pubblicità gliela comunica.
Le Coorti, secondo la Electronic Frontier Foundation, potrebbero essere oltre 30mila, e ciascuna dovrebbe contare migliaia di individui, in modo che il singolo utente non possa essere rintracciato. Una singola Coorte dovrebbe poi avere una sorta di scadenza, al massimo una settimana, dopodiché gli interessi dell’utente protrano essere riclassificati. Magari perché la sua attenzione (il mercato è sempre della nostra attenzione), si è rivolto ad altri temi, ad altri prodotti. A quel punto la persona viene inserita in una nuova Coorte.
Per fare un esempio: se appartengo alla categoria di quelli che, nell’ultima settimana, hanno cercato alcuni titoli di romanzi del prossimo premio Strega, farò parte della Coorte degli interessati al più importante premio letterario italiano. E ogni volta che visito un sito, quel sito riceve informazione sulla Coorte cui appartengo e, magicamente, mi propone pubblicità sui romanzi della cinquina. L’inserzionista non conoscerà altro che il tipo di Coorte di cui faccio parte: non saprà nulla della mia navigazione sito dopo sito. Scrive Google nel suo blog: FLoC «nasconde efficacemente le persone tra la folla».
Sembra interessante, vero? In realtà ci sono alcuni – non minimi – problemi.
Con FLoC non smettiamo di lasciare la nostra impronta digitale del browser – una sorta di impronta digitale-digitale – ogni volta che navighiamo. Siamo noi e siamo riconoscibili, siamo rintracciabili, c’è poco da fare. La privacy sventolata da Google è una forma di protezione non generalizzata, ma rivolta a tutte le aziende che utilizzavano i cookie per capire i nostri interessi. Insomma Google ci protegge dalla concorrenza, dalla sua concorrenza.
Qual è uno dei sistemi più utilizzati – al mondo – per fare pubblicità digitale? Ovviamente Google Ads che nel 2020 ha portato ricavi nelle casse di Alphabet per poco meno di 150 miliardi di dollari, grazie a 7 milioni di inserzionisti che accedono alla piattaforma. Insomma mutando l’ordine degli addendi il risultato non cambia: Google impone all’universo della pubblicità digitale il proprio standard. Punto e basta. Ieri erano i cookie, oggi FLoC. Tutti i dati che Google raccoglie per inserirmi in una Coorte non sono condivisi con nessuno, a eccezione di un’unica piattaforme, e cioè Chrome. Chi possiede Chrome? Google.
Giusto per precisare: Chrome è utilizzato da circa il 65% degli utenti Internet nel mondo, poco meno di 3 miliardi di persone (una prima cosa che potete fare, se vi interessa questa vicenda, è passare a Firefox).
Ancora un’osservazione. In linea di principio non ci sono problemi se entro in una Coorte di appassionati al premio Strega, o di persone interessate a comprare divani, ma provate a immaginare se vengo inserito in un gruppo sulla base di informazioni sensibili: come la fede religiosa (magari in un paese di dove si è minoranza religiosa), oppure sulla base di preferenze sessuali, o infine se entro in una community di persone con patologie particolari.
Non sappiamo come si comporterà l’intelligenza artificiale quando si tratterà di modellare una Coorte sulla base dei dati che raccoglie (di solito non va tutto liscio…). Google esclude che possano esserci pregiudizi, ma ne siamo così certi?
E soprattutto cosa accadrà se qualcuno riuscisse a mettere le mani sui dati di una intera Coorte?
O se Google, come ha fatto in passato, decide di stringere alleanze con agenzie di sicurezza?
Anche Netflix, con il suo algoritmo, utilizza delle Coorti di utenti per classificarli in base ai loro interessi e proporre loro intrattenimento in linea con quello che interessa loro. Ma il potere di una piattaforma di streaming non è assolutamente paragonabile al potere di Google.
Siamo passati da una schedatura per individui a una schedatura per gruppi di individui.
Una cosa va ribadita, ed è essenziale anche per capire il peso di questa storia: quando FLoC comincerà a funzionare per tutti gli utenti di Chrome, rimarrà sulla scena un unico soggetto che conosce tutto di noi, sa tutto di noi, in una mostruosa asimmetria di conoscenza e potere, quel soggetto è Google (al quale ovviamente va aggiunto anche Facebook).
E quel che appare chiaro è che più andiamo avanti, più le armi messe in campo dalle istituzioni (soprattutto quelle europee) non sembrano nemmeno scalfire questo dato di fatto.