Dieci anni non sono pochi nell’universo digitale. E a un decennio l’articolo di Chris Anderson pubblicato il 23 giugno del 2008 su Wired, dal titolo: La fine della teoria: il diluvio dei dati renderà il metodo scientifico obsoleto, non è per niente invecchiato. Continua a produrre effetti culturale, a esaltare una specie di religione dei dati di cui questo articolo è proprio uno dei testi fondamentali.
La rilettura di quel testo oggi colpisce soprattutto per il linguaggio. Un tono sicuro, aspro, sferzante che non lasciava spazio ai dubbi e alle critiche. Con la Teoria poteva essere seppellito tutto un modo di fare scienza ma soprattutto di analizzare i fatti sociali. Anderson non provava rimpianti e soprattutto non mostrava tentennamenti di fronte a quella sarebbe stata una rivoluzione. Una rivoluzione aperta da un diluvio di dati. E si sa i diluvi non li gestisce l’uomo, non li controlla, non ne prevede la fine e l’esito. Quel diluvio ha sconvolto il mondo. Enormi risultati positivi, molti rischi connessi soprattutto a questo modo di pensare e concepire l’utilizzo dei Big data come qualcosa di taumaturgico. Le rivoluzioni non sono banchetti di nozze, diceva uno che si intendeva dell’argomento, quindi forse occorre andarci piano con l’ottimismo che qualcuno sotto le barricate rischia di rimanerci. E non vorrei che fosse qualcosa di importante come la capacità di esprimere una visione che non sia un insetto attaccato alla carta moschicida dei dati stessi.
Per ricordare quell’articolo ho scritto sull’Huffington Post un pezzo, a dieci anni di distanza esatti: Dieci anni di fine della teoria, appunto.