Fare il giornalista significa dare notizie, e poi spiegarle. In definitiva è un mestiere di cui è abbastanza semplice definire il perimetro. Sebbene molti di noi scrivano, alcuni scrivano molto bene, la professione ha poco a che fare con la bella scrittura. Indipendentemente dal formato e da come si impacchettano, contano sempre e soltanto le notizie.
Eppure molti giornalisti – e anche molte testate – non danno notizie, ma si limitano a fare una cosa che in inglese si definisce curation, che potremmo tradurre con rassegna, oppure con curatela di notizie. Costoro trovano notizie che altri hanno dato (dopotutto le agenzie di stampa nascono con questa missione) e confezionano una storia, un articolo, un post, addirittura una Storia su Instagram (il maiuscolo si riferisce a questa tipologia di post dentro Instagram).
Alcuni giornalisti si limitano produrre la curatela di notizie non trovate da loro, altri hanno escogitato nuovi formati per la curation, altri ancora oltre alle notizie aggiungono un commento. Chi fa giornalismo puntando tutto sulla curation è evidente che consapevolmente tralascia la ragione fondante del giornalismo e cioè l’idea che il cronista debba trovare da sé le notizie, e di conseguenza darle.
La scorsa settimana una iniziativa giornalistica che fa della curation la propria missione ha vinto un importante premio giornalistico, il Premiolino. Sto parlando di Will Media, una start-up che propone contenuti dentro Instagram.
Will ha ottenuto un buon successo di pubblico, quasi mezzo milioni di follower, giustificato dalla buona qualità del lavoro svolto. Basta sfogliare le Storie e i post su Instagram per capire che hanno identificato una loro cifra stilistica, un tono di voce con cui spiegano notizie a quegli utenti che rimangono all’interno del perimetro del social network, e che non hanno alcuna intenzione di uscire. Si tratta di un corposo mestiere di curation, di spiegazione di fatti complessi. Will produce anche alcune garbate interviste, ma da quel che ho visto non ha dato grandi notizie (correggetemi se sbaglio).
Il premio assegnato a Will certifica la novità, non proprio assoluta se guardiamo alla confezione, di una curation fatta all’interno di uno spazio digitale che fin qui non ha visto esempi luminosi di giornalismo. (Sorge però una domanda da porre a coloro che hanno attribuito il premio: le notizie dove stanno?)
Purtroppo molte testate considerano ancora i social network come canali di distribuzione di contenuti, e non come luoghi in cui costruire comunità che conversano sui temi. Will ha colto bene questo elemento, e ha puntato su alcuni temi (sicuramente l’ambiente e gli esteri) che interessano una porzione significativa degli utenti di Instagram, e soprattutto ha impacchettato i contenuti alla maniera di altre iniziativi simili, confezionandoli come fanno i social media manager di aziende di successo, proprio nei social network. Facendo insomma attenzione a uno stile, prima di tutto grafico, riconoscibile. E chiamando infine i propri follower di sentirsi parte della comunità dei seguaci di Will. Una call to action che poggia sulla prossimità anagrafica dei giornalisti che mettono il proprio volto nei contenuti, e che scommette ancor di più sulla missione della testata: “uno spazio per i curiosi del mondo” e “per capire ciò che ci circonda e fare un figurone a cena”. Queste motivazioni interessanti, furbe e intelligenti – chi non vuol sentirsi curioso? e chi non vuole fare bella figura a cena? – contengono ragioni valide per sentirsi parte di una comunità.
In fondo anche i giornali sono comunità di lettori, potrebbe suggerire qualcuno, ed è vero; ma è ancor più vero che questi vecchi arnesi cartacei, televisivi, radiofonici o digitali però possiedono il vizio antico di dare notizie. Vizio che i virtuosi, che attribuiscono un premio giornalistico così importante, dovrebbero ricordare. Altrimenti finiremo col pensare che, tolte le agenzie di stampa, il nostro mestiere sarà presto ridotto a una bella confezione.
Tuttavia dentro Instagram esiste chi ha proposto un buon giornalismo, scovando notizie e dandole alla propria comunità di seguaci. Non considerando insomma il social network soltanto come un canale di distribuzione, come un luogo in cui parlare alla propria audience, ma come uno spazio in cui le notizie ci sono, basta solo andarle a trovare.
È il caso del lavoro che ha fatto questa estate Selvaggia Lucarelli. La quale non è soltanto un personaggio pubblico, una giurata di una trasmissione televisiva di successo, ma anche una giornalista che ha deciso di dare battaglia sul tema del Covid19, anche all’interno di Instagram. Avrebbe potuto limitarsi alla critica di costume, ma ha scelto di andare a scovare notizie proprio nelle Storie e nei post del social network fondato da Kevin Systrom.
Il suo obiettivo era una certa fauna televisionara ed esibizionista che affolla le discoteche della Costa Smeralda e che questa estate ha deciso di non applicare le basilari misure di contenimento dell’epidemia. Una collettività colma di famosi o famosetti, di influencer e ospiti di trasmissioni tv del pomeriggio, che esibisce la propria vita davanti alla fotocamera dello smartphone o alla telecamera della tv. E che in questo sfoggio continuo ha assunto su di sé anche una prospettiva morale. La fauna spiega, interpreta, suggerisce, mostra direzioni da intraprendere in fatti minimi della vita e anche nel pieno di una grave pandemia e incidentalmente fa anche pubblicità.
In questa cornice Selvaggia Lucarelli ha scovato chi negava il Covid nelle parole e nei comportamenti, chi fingeva e chi recitava. Ha trovato nelle Storie della fauna televisionara ed esibizionista persone che avevano contratto la malattia ed eludevano i controlli, altre che hanno trasformato il nuovo Coronavirus in uno status symbol o che ne minimizzavano la portata. Dal punto di vista giornalistico il lavoro di Lucarelli è consistito nel mettere a confronto, utilizzando le notizie presenti nelle Storie, affermazioni e comportamenti, rivelando una diffusa ipocrisia e soprattuto smascherando personaggi noti che avevano mentito pubblicamente. Quest’ultimo è uno dei compiti del giornalismo.
Le notizie erano e stavano nelle Storie e nei post della fauna, che prima si riprendeva e pubblicava danzante e giubilante, senza mascherina, in affollate discoteche sarde, e poi spiegava sobria e contrita la pena dell’essere malati. Lucarelli ha fatto appello alla propria comunità di follower trattandola anche come possibile fonte, e alcune notizie sono arrivate da lì.
Capisco che tutto questo possa essere rubricato alla voce folklore perché stiamo parlando di personaggi di avanspettacolo. Eppure il lavoro di Selvaggia Lucarelli appartiene alla nobile categoria della cronaca e del giornalismo di costume. Come Irene Brin e Natalia Aspesi, Lucarelli ha raccontato pezzi di Italia nell’estate del 2020, e l’ha fatto a partire da notizie scovate e date da lei, e che nessuno fin lì aveva dato. Notizie che hanno suscitato l’interesse del pubblico, anche perché la Costa Smeralda è diventata anche grazie all’impegno della fauna televisionara ed esibizionista epicentro di un focolaio dell’epidemia, alla fine di agosto.
Selvaggia Lucarelli ha fatto questo lavoro in uno spazio particolare, Instagram, coniugando un formato – quello delle sue Storie – con quello che è, e dovrebbe essere, lo specifico giornalistico, le notizie. Questa, a me pare, la principale strada da seguire se si vuole guardare a un nuovo modo di fare giornalismo nei social network; poi, certo, nessuno nega che esista quella che abbiamo definito curation come sentiero interessante da percorrere per offrire contenuti di qualità, ma questa arriva dopo; molto dopo.