Fa sorridere – eufemismo – assistere al dibattito che in Italia ha preso corpo in questi giorni intorno al MES (il Meccanismo europeo di stabilità), ascoltare toni rabbiosi e seguirne la iper semplificazione, e dovremmo aggiungere anche la iper mistificazione.
Il merito della questione, un merito tecnico complicato ma non impossibile da capire, è svanito prima ancora di poter essere spiegato; si è trasformato – quando ancora le cronache parlavano d’altro – in una serie di MEME di pronta beva per un pubblico assetato di sangue, avvelenato da qualunque provvedimento odori di Europa, di subdola tecnocrazia, furioso con le banche e con chi sta dietro le banche, accecato da sigle che sembrano costruite per nascondere cospirazioni, truffe e attacchi al popolo sovrano.
Mentre sui quotidiani e sulle televisioni va in onda un dibattito poco comprensibile per la maggior parte del Paese, nei social network si sta consumando lo scontro vero e proprio. Quello tra differenti pance, tra differenti forme di populismo, che pasturano gli utenti-elettori nello spazio digitale e si contendono il primato su un blocco elettorale ondeggiante. Lo scontro feroce si accende quando si scorge all’orizzonte la possibilità che si stia creando, come la tempesta del film, il MEME perfetto.
Quel MEME che emerge da particolari e poco ripetibili condizioni, e che possiede una specie di aura perché riesce a esprimere in pochi segni la temperatura della congiuntura politica. Una specie di condensato emotivo, densissimo, da portare in processione e che in effigie rappresenta la sintesi estrema di una posizione politica, il proiettile che scuote quell’esaminatore distratto che è il pubblico nei social network.
Una porzione importante della battaglia per il consenso nel paese sfugge ormai ai radar tradizionali, ruota intorno alla capacità di produrre alchemicamente (non esiste una ricetta precisa) quel MEME perfetto. Di produrne in sequenza.
La verità è che quando le comunicazioni del presidente del Consiglio alla Camera non erano nemmeno lontanamente immaginabili, qualcuno in una bottega alchemica (che potrebbe chiamarsi 8Kun) stava già pensando e lavorando al MEME perfetto. L’innesco è stato un post su Facebook di Matteo Salvini che è arrivato con una settimana di anticipo rispetto alle prime e alle seconde pagine, e ha dato il via libera alla corsa degli alchimisti digitali; che l’autore sia un troll russo o un artigiano italiano non fa differenza.
In questa corsa forsennata conta chi arriva primo, e chi per primo mette in moto il meccanismo di contagio che porta un MEME banale, anonimo, a diventare il MEME perfetto. Non è nemmeno detto che una volta creato si riesca a rintracciare l’originale: l’Ur-MEME.
Gli schiaffoni tra i populismi rivali, d’opposizione e di governo, volano rasoterra, in una dimensione che sembra parallela solo a chi non ne ha contezza. Gli uni hanno identificato una preda facile, una parola d’ordine, che ha tutti i crismi del complotto ai danni del popolo, e quindi hanno attaccato con rapidità, gli altri devono rispondere: non possono fare a meno di rispondere. Una volta innescato il meccanismo del contagio si osservano gli effetti, si assiste alla pandemia. In questa cornice a nulla servono articoli che spiegano cosa sia il MES, elenchi di domande e risposte, una FAQ ben scritta da giornalisti che hanno studiato la questione.
Ovviamente i retroscena non prendono in esame tutto questo, si stupiscono dei voltafaccia di alcuni esponenti di governo, ipotizzano letture politiciste; non avendo mai aperto Google trends o consultato un software di sentiment analysis (suona male ma si chiama così), continuano a non capire che un pezzo di paese sta sotto quei radar. E continuano soprattutto a non capire – nonostante le evidenze – che il debunking serve a poco, a pochissimo. Quasi a niente.
Purtroppo, sotto i radar tradizionali, il dibattito – se proprio vogliamo utilizzare questo termine in realtà illusorio – va in scena su un registro in cui il merito, di cui dicevamo, dopo essere svanito si è già trasformato in altro. All’alchimista è bastato inserire nel MEME perfetto alcune parole chiave – “finanza”, “attacco al contante”, “difesa del contante”, “sottomissione alla Germania”, “svendita della sovranità” – che stimolano la reazione emotiva delle persone, reperire l’immagine giusta, costruire la sintesi di testo e foto, mescolare il tutto, gettare una rete che raccolga il consenso in forma di risentimento, e poi darsi appuntamento per capitalizzare tutto questo alle prime elezioni disponibili.
Continuiamo a pensare che la battaglia politica si decida sui temi, quando i temi sono un pretesto per la loro semplificazione, talvolta per una grossolana falsificazione, per la riduzione a schemi visuali, la loro banalizzazione. Categorie che non vanno considerate come espedienti, si tratta di soluzioni che facilitano la compliance algoritmica – cioè la conformità di un contenuto ai formati, agli stili, alle prescrizioni degli algoritmi che ne favoriscono la condivisione. Cioè il raggiungimento di un pubblico preciso, vasto a piacere.
Iper semplificazione o falsificazione non significa, tuttavia, che questi temi, trasformati in boe di segnalazione intorno alle quali ruota la navigazione di alcuni movimenti politici per settimane e addirittura mesi, non abbiano un cospicuo peso specifico. Anzi, il successo e la capacità di durare arriva quando gli stessi temi, svuotati del significato e del merito, assumono nel MEME perfetto connotati morali, pre-politici, di definizione dell’identità di chi li innalza a vessillo della propria battaglia. Questi connotati sono il carburante delle emozioni, del risentimento e della rabbia dei declassati (per dirla con Raffaele Alberto Ventura) che trovano così libera espressione nei social network.
Una volta condiviso il MEME perfetto è una specie di carta moschicida che stimola la fantasia e attira le nefandezze – nel caso del MES – compiute dalle élite ai danni del popolo sovrano (ma vale anche l’esatto contrario, le nefandezze dei populismi ai danni delle democrazie liberali). La moralità o l’amoralità generano polarizzazione, la polarizzazione è sorella stretta dell’identità, e l’identità produce condivisioni, reazioni, commenti, quindi la possibilità che quei contenuti volino finalmente al di sopra della quota radar.
Quello che è accaduto in questi giorni è che nel momento in cui uno dei due populismi rivali ha visto impennarsi il grafico di Google trends, e soprattuto ha osservato le analisi delle conversazioni nei social network (non serve nessuna Bestia, basta acquistare quel software qualunque di cui sopra) ha capito che il rivale stava pasturando là sotto, ed è dovuto correre ai ripari. Per tutti gli altri era già troppo tardi.
Altro che ritorno di fiamma, stiamo assistendo all’esatto contrario: uno scontro all’ultimo sangue per presidiare un tema sul quale entrambi devono prevalere a tutti i costi.
Immaginiamo cosa si possa obiettare a questo ragionamento: la propaganda c’è sempre stata, cambia solo la modalità.
Gli stessi che non colgono la portata e la rapidità con cui – sotto i radar – si diffonde un tema tramutato in MEME perfetto, e quindi in carta moschicida (Bibbiano, i 49 milioni, gli sbarchi, Soros…), dimenticano la vitalità all’interno di questo ecosistema, la velocità di propagazione prima che arrivi ai piani nobili della comunicazione (osservate come sale su il diagramma), non ne colgono la capacità di produrre contenuti e di costruire immaginario, e comunità temporanee (nasceranno comitati contro il MES come ne sono nati per l’Italexit o contro i vaccini), nutrite da argomenti che arrivano da fonti autorevoli, riconosciute, non solo esponenti politici quindi.
Questo meccanismo, infatti, ha assoluto bisogno, la necessità fisiologica, del carburante rappresentato da dichiarazioni, interviste, interventi nei talk show che legittimano le posizioni che galleggiano sotto la quota radar. Una volta acquisiti pareri autorevoli, una volta guadagnata l’immagine di una star politica che sta dalla propria parte, una volta procacciato lo slogan che poi si trasforma in quote – la citazione che è elemento essenziale della costruzione di qualunque MEME -, l’opera dei troll, quelli stranieri a pagamento e quelli volontari, chiude il cerchio del primo MEME, lo rafforza, genera ulteriore conversazione. Basta solo assemblare e inserirsi nel flusso.
Il meccanismo è lo stesso che sta alla base del second screen, e cioè di tutti coloro che guardano la televisione con lo smartphone in mano, pronti a commentare e condividere. I social network sono uno spazio di intrattenimento e favoriscono una reazione simile sia che si parli di MES, sia che si faccia il tifo per un cantante di X Factor. Immaginarli come luoghi in cui si produce informazione di qualità – politica poi! – è sbagliato, fuorviante, è davvero sciocco.
Dettare temi e tempi dell’agenda politica significa imporre un argomento che contenga in sé, in una sintesi perfetta, connotati morali ed elementi emotivi, e infine una adesione ai meccanismi algoritmici, dunque la capacità di emergere con rapidità, arrivare a un pubblico preciso e poi al resto del Paese. È il MEME perfetto che ha inchiodato la politica, ha costretto il presidente del Consiglio a rispondere in parlamento, il ministro dell’Economia a tentare una mediazione con l’Europa, i giornali e le televisioni a rincorrere, a spiegare, ad analizzare. Serve acquisire familiarità con i radar per scrutare il cielo e capire cosa accade al di sotto della qualità in cui tutto è visibile con chiarezza.
Nelle botteghe degli alchimisti digitali, la Grande Opera (e non è casuale questo riferimento, andate a leggere “La Stella Nera” di Gary Lachman e “Contro la vostra realtà” di Angela Nagle per cogliere i tanti elementi di oscurità che si agitano nella sentina digitale), consiste in una ricerca sfrenata che conduce a creare, e ricreare, in continuazione il MEME perfetto, vera pietra filosofale della politica contemporanea.