Ieri sera il sito del Ministero della Salute è crollato per l’enorme accesso di utenti. Che fare di fronte alla malattia, di fronte all’epidemia di Covid19? A quale santo affidarsi, dopo che la scienza e la medicina sono state ripetutamente prese a schiaffoni?
Negli ultimi anni, in molti – uscendo dalle catacombe che ospitavano un’eresia fin lì senza voce – hanno santificato online Andrew Wakefield, quello che su Lancet, barando alla grande, disse che vaccini e autismo erano correlati; loro e altri hanno minato la fiducia nei medici e nella medicina. Servì a poco bandire Wakefield, o esiliarlo, servì a poco cancellare quello studio, perché aveva già prodotto accoliti; dapprima in numero contenuto, poi sempre maggiore. In Italia, alle origini, gli anti-vaccinisti spedivano fax adirati negli uffici dell’Istituto superiore di sanità. Eravamo ancora in un’epoca in cui la gestione pubblica di macro problemi era «sempre più tecnocratica – come scrive Mark Thompson ne La fine del dibattito pubblico – e lo status degli scienziati, dei medici, degli economisti e di altri esperti che aiutavano a stilare le politiche era cruciale quando poi si cercava l’appoggio della popolazione. Negli anni novanta questo insieme di convenzioni, com’è successo a tante altre forme di ritegno retorico, ha iniziato a perdere i pezzi e oggi è ridotto a un cumulo di macerie. Tra le cause di questo cumulo di macerie scorgiamo un enorme megafono digitale che ha degradato scienza e medicina al rango di pratiche disintermediabili, come molte altre. Dal giornalismo alle agenzie di viaggi, dalla critica gastronomica a quella letteraria, anche per la medicina lo spazio tra il sapere e il bisogno di sapere è stato spesso occupato da un algoritmo.
A rafforzare questo processo, Donald Trump, poi Presidente degli Stati Uniti d’America, affermava nel non troppo lontano 2012: «sapete quando portate un piccino che pesa cinque chili dal dottore e gli iniettano tanti, tanti vaccini contemporaneamente… Io sono a favore delle vaccinazioni, ma credo che, quando metti tutti quei vaccini insieme, due mesi dopo il bambino è molto diverso e sono successe tante cose diverse, sul serio… e conosco dei casi». Gli hanno dato un nome a questa robaccia: teoria del sovraccarico vaccinico.
Di fronte a Covid19 l’orizzonte sembra essere mutato. Certo non manca una schiumaglia di teorie cospirazioniste circa l’origine della malattia, l’oscura ipotesi di manipolazioni di altri virus affolla i bassifondi del web; ma poi, di fronte alla patologia e alla paura, il bisogno primario di sopravvivere prevale. Abbiamo necessità di essere curati e rassicurati.
Ecco perché il sito del Ministero della salute è crollato nel cuore della scorsa notte. Stiamo tutti a pregare che uno scienziato, un medico, un ricercatore, uno qualunque dei maltrattati dell’élite del sapere, uno dei denigrati e derisi da doctor google, trovi il vaccino. Ci si rivolge, in queste ore, con deferenza a quelli che sui social network fino a ieri insultavano il popolo bue, il volgo profano, colpevole di credulità e d’ostinazione, coloro che affermavano e affermano il dispotismo della scienza e proclamano la tirannia del paper; dimentichi del fatto che se il rispettabile pubblico sbaglia per proterva ignoranza, evitare di spiegarsi, con parole comprensibili ai più, equivale a un peccato di simile specie, la sfrontata superbia. La scienza, malgrado questi suoi esponenti muscolosi, dovrebbe riprendere in fretta uno spazio che è suo. Ci riuscirà? Sembra complicato anche se non impossibile rimettere insieme tutti i cocci.
Non dobbiamo dimenticare che l’opinione comune, o quel che resta di questo simulacro sociologico, soggiace ad alcune leggi: non esiste un vuoto in essa che non venga presto riempito. Così, in attesa che altri scoprano il vaccino, in attesa che la scienza occupi il vuoto e si riprenda il suo spazio, il santo cui affidarsi sembra essere la tecnologia.
La nostra quotidianità, alle prese con paure profonde più che con rischi concreti, scivola lungo il piano inclinato di una sempre maggiore accondiscendenza tecnologica. In fondo l’oggetto che più teniamo in mano è lo smartphone, nostro fido talismano, a esso ci rivolgiamo esitanti per alleviare ogni preoccupazione.
In questi giorni di epidemia il tecnoutopismo, prassi e ideologia che affida alle macchine virtù taumaturgiche, sta provando a vincere una sua scommessa culturale, sociale, politica, psicologica. Siccome il progresso “alla velocità dei sogni” affida alle macchine compiti inediti, giorno dopo giorno, non ci parrà vero che queste stesse macchine aiutino a sconfiggere il virus. Gli algoritmi di molte aziende cinesi, e non solo, analizzano tutti i dati possibili che arrivano da sequenziamenti del DNA, scrutano le immagini, le TAC e le risonanze magnetiche alla ricerca di correlazioni e informazioni utili alla migliore comprensione del virus, e quindi alla realizzazione del vaccino. Accanto all’epidemia di Covid19, suggerisce l’Organizzazione mondiale della sanità, sta esplodendo un’altra pandemia, fatta di informazioni sbagliate, fuorvianti, un’infodemia che si nutre di falsità, contenuti venefici e malìe digitali.
Non è tanto il naturale utilizzo dell’intelligenza artificiale, da parte della ricerca medica e scientifica, per macinare i dati di tutti i contagiati, quanto un obiettivo più ambizioso, un obiettivo culturale, che affermi – su larga scala – la necessità sociale e individuale della tecnologia (quella che funziona grazie all’uso predatorio dei dati) per una finalità etica. L’obiettivo è sancire il bisogno collettivo dell’utilizzo delle macchine, come scialuppa di salvataggio in una pandemia.
Ha scritto sul Manifesto Simone Pieranni: «di fronte alla prima emergenza sanitaria nell’epoca dell’intelligenza artificiale, e seppure in una situazione drammatica e complicata, ancora una volta, la Cina indica una via». Potevamo immaginarlo, perché l’utilizzo di applicazioni totali da parte della popolazione cinese è diffuso in ogni ambito. Non solo per stringere relazioni o informarsi, ma anche per pagare, per lavorare, per prenotare un tavolo in un ristorante o un viaggio. Per monitorare le proprie condizioni fisiche; e non è affatto strano che l’utilizzo dell’App Salute di WeChat, negli ultimi 20 giorni, sia cresciuto del 347%. Alcune applicazioni cinesi, tracciando gli spostamenti delle persone e raccogliendo dati dalle prenotazioni aeree, dai biglietti dei treni e della metropolitana, dicono ai cittadini se rischiano qualcosa, se sono stati vicini a un contagiato. China Mobile ha offerto agli utenti la possibilità di controllare i propri spostamenti – ogni singolo spostamento – negli ultimi 30 giorni. Molti hanno apprezzato.
Scrive il South China Morning Post (di proprietà di AliBaba) che il Governo «sta assegnando ai cittadini un codice QR che indicherà se rischiano di contrarre il virus e se devono auto-mettersi in quarantena». Milioni di persone ad Hangzhou, la città in cui questo sistema è in fase di sperimentazione, hanno utilizzato il sistema tramite Alipay, l’app di pagamento di AliBaba.
«Le persone con un codice “verde” possono uscire liberamente, quelle con un codice “rosso” devono subire una quarantena di 14 giorni e chi ha un codice “giallo” deve scontare sette giorni di quarantena». Baidu, il motore di ricerca cinese, e SenseTime, società di intelligenza artificiale, aiutano le autorità a scoprire chi va in giro senza mascherina nei luoghi pubblici. Un portavoce di SenseTime ha dichiarato: «nelle stazioni della metropolitana, il sistema riceverà una notifica ogni volta che c’è una persona senza maschera».
Potremmo aggiungere a queste notizie la disponibilità, inedita, da parte di Facebook di alterare l’algoritmo per favorire notizie verificate e contrastare l’infodemia. Un tempestivo senso di responsabilità messo in pratica, tra l’altro, da decine di migliaia di persone sparse per il mondo, la nostra rete globale di verificatori, come li chiama Facebook. Grazie all’intelligenza degli umani, il social network spinge alla confidenza verso la macchina, utilizza la nostra intelligenza per persuaderci ad abbracciare la sua di intelligenza e a farci rassicurare dalla sua di premura. Affidatevi a noi per saperne di più, per avere notizie certe.
Insomma in una fase critica della vita del pianeta, dacché così viene raccontata, le macchine rappresentano una prima risorsa: vedete – sembrano affermare le techno-corpration del mondo intero – abbiamo sempre carpito i vostri dati a fin di bene, e quello che stiamo facendo in questi giorni con Covid19 ne è la prova. L’intelligenza artificiale, che raccoglie e macina i dati di tutti, e che analizza e correla i dati di tutti, rappresenta una risorsa iper-moderna e necessaria che dobbiamo mettere in campo, a ogni costo, se vogliamo vincere.
Reuters ha sottolineato come il virus abbia fatto emergere «dall’ombra» il sistema di sorveglianza cinese. C’è qualcosa di più di un’emersione, di un semplice quanto globale svelamento. Il nuovo Coronavirus sta legittimando, a partire da quel sistema, la naturale presenza e il salutare bisogno del capitalismo della sorveglianza, per dirla con Shoshana Zuboff. Che non ha più bisogno di nascondersi, di fare lobby, di inventarsi un racconto per dimostrare di satare dalla parte del bene. La tecnologia perde l’ambivalenza di cui parlava Stiegler (ricordando il Platone), smette di essere pharmakon, e acquisisce caratteristiche esclusivamente benefiche. Mai come in questo caso, l’aggettivo che tante volte ho utilizzato – taumaturgico – sembra avere senso.
C’è un altro elemento importante che scuote alla radice il modo in cui, fin qui, abbiamo osservato la cavalcata trionfante della tecnologia e del digitale nelle nostre esistenze. Finora il motore della grande narrazione (l’ultima grande narrazione) tecno-utopistica, e dello storytelling (perdonatemi) a favore dell’utilizzo salvifico dello smartphone e del suo contenuto, arrivava dalla California. Dalla terra promessa che crea il design di ogni oggetto Apple ma non lo produce. Il cuore di quel raconto era la Valle di silicio benedetta dal sole e dal denaro dei venture capitalist, dalle relazioni con il complesso militar-industriale, dal legame con le università e con Hollywood. Certo, negli ultimi tempi qualcosa è cambiato nel racconto che arriva da laggiù: il plot si è fatto più incerto, meno chiari sono i ruoli dei buoni e dei cattivi, meno limpido l’orizzonte della storia e il suo esito. Colpa di Cambridge Analytica. E quasi tutti, ciascuno con le risorse di cui dispone, talvolta confondendo cause ed effetti, appuntando l’attenzione sul dito anziché sulla Luna, dicevo, quasi tutti oggi hanno smesso di sospendere l’incredulità di fronte al racconto che arriva dalla California, passando da una dimensione narrativa a quella di cronaca. Passando dalla fascinazione per una storia fantastica all’immediata preoccupazione per sé: che danni produce il telefono? Dove sono i miei dati?
Poi è arrivato il virus. E il virus ci ha messo a contatto con dubbi e soprattutto con la diffidenza verso l’umano portatore sano, asintomatico va di moda, di corruzione e contagio. A questo la narrazione tecno-utopista esce dalle crisi, e torna di nuovo utile. Ma non più nella versione libertaria, freak, che alimenta i sonni dei frequentatori di Burning Man.
Stiamo assistendo a una modifica in corso d’opera rispetto all’impianto di valori che sostiene quella storia e i suoi protagonisti. Non serve più raccontare Internet come sinonimo di libertà, non serve il digitale come strumento che abilita funzioni e arricchisce l’uomo, che conferisce potere di scelta al cittadino, che rende il mondo un posto più aperto e connesso, insomma non c’è più bisogno di proporre una visione della tecnologia che fa esprimere e affranca l’essere umano. Scambiando libertà per sicurezza, oggi la nuova narrazione afferma che la tecnologia risulta necessaria nella vita di tutti i giorni; a sorvegliare le possibilità di epidemia, a punire chi non coopera in questa lotta senza quartiere, a sconfiggere il virus, a circoscrivere la pandemia. In fondo, lo ripeto, la tecnologia appare sempre pulita, indenne da contagio, sterile, lucente come l’acciaio chirurgico.
Il digitale osserva ogni spostamento, controlla, ammonisce, prescrive. Il viso, incredulo prima che impaurito, di quella signora cinese avvisata da un drone, comparso come per magia, a ricordarle di mettere la mascherina, è una delle tante voci del Grande Fratello, di quelle che, come scriveva Orwell, ricordano: noi siamo i sacerdoti del potere.
E non sarà mica un caso che questo enorme processo di chiusura degli orizzonti, anche culturali, di un luogo che è nato ed è cresciuto aperto, arrivi proprio adesso. Siamo nell’epoca di Donald Trump, di Bolsonaro e Orban, abitiamo un’èra in cui i muri tornano di moda. Ed è naturale che vinca l’esaltazione di un approccio rapace e occhiuto, che si celebri un’impostazione securitaria che fa leva sull’appropriazione continua di dati, sul controllo dell’attività delle persone, un approccio che molti in occidente benedicono. Il digitale esercita un monopolio di esercizio della forza. Lo stesso sistema di controllo rapace dei dati cercava, finora, una legittimazione in maniera uguale e contraria, rappresentandosi come un sistema che esaltava la libertà dei singoli; e non serviva a presidiare il potere e a proteggere i singoli da loro stessi. Oggi il tavolo è rovesciato, quel sistema si è fatto – in senso marxiano – ideologia.
Così oggi il più clamoroso exploit di promozione planetaria della tecnologia, che lascia sul terreno preoccupazioni risibili per dati e privacy, arriva dalla Cina.
Pechino sfrutta l’opportunità della paura globale della pandemia, tenta di silenziare ritardi e censure nella prima fase di gestione di Covid19, e prova a sostituire la sua visione della tecnologia a quella californiana. Dopo aver esportato TikTok in tutto il mondo, la Cina giustifica e propone al mondo il suo capitalismo della sorveglianza come primo antidoto, come primo vaccino non biologico, al virus nato nel wet market di Wuhan. Il capitalismo della sorveglianza cinese è proprio quello di TikTok, che non ha bisogno di preferenze espresse per proporre agli utenti contenuti. Gli basta osservare una miriade di segnali impliciti che l’utente lascia lungo la strada della sua esperienza di navigazione nel social network.
Il modello cinese si propone efficiente e razionale, senza paura di mostrare un volto dirigista, centralista, di controllo a tappeto, di censura. Non che gli algoritmi californiani siano stati democratici, ci mancherebbe. Il loro racconto era una enorme mistificazione: l’autorappresentazione batteva sui tasti della liberazione dai vincoli, dall’oppressione e dalla pesantezza analogica. Allo stesso modo in cui Pechino diffonde il video dell’Ospedale costruito in pochi giorni, così propone l’intelligenza artificiale come soluzione efficiente al pericolo di Covid19. Asfaltiamo ogni diritto alla riservatezza, controlliamo a tappeto ogni vostro movimento, edifichiamo applicazioni che servano a tenere a bada l’epidemia, perché così si fa.
Il sole sulla Valle di silicio della California sembra meno splendente. La nuova narrazione di Pechino fa leva implicita sul dovere di controllare tante persone, di governare una situazione incresciosa, di affrontare un pericolo globale, e spinge quindi sull’ineluttabilità della sorveglianza che però stavolta è rivendicata. Mostrata come un successo, non mistificata, non nascosta. Esibita come la bandiera efficiente di un sistema avanzato di controllo, che nella confusione aiuta a fare ordine.