In quella sfera di cristallo, che racchiude l’anima e la mente di uno scrittore, si agitano fantasmi e immagini, si indovinano labirinti e geografie, e come si richiede a una vera sfera magica, si scorgono anche premonizioni che illuminano il futuro. Il Gioco delle premonizioni è un gioco inutile, folle e arbitrario – come quasi tutti i giochi -soprattutto quando viene applicato alla tecnologia e alla rete. Chi scrive vi si applica senza particolare successo, avendo solo un paio di compari di gioco.
Le regole sono semplici: su un piatto della bilancia si pone l’attuale (Innominabile o meno) e sull’altro la letteratura. Il Gioco consiste nell’andare a scovare nell’uno tracce e premonizioni dell’altro, di com’è diventato il presente scorgendone le orme nelle pagine di scrittori passati. Insomma si prende un libro e si dice: guarda, Tizio l’aveva previsto!
Capite bene quanto sia assurdo tutto questo, e vago, e dunque quanto poco serio sia un simile marchingegno. Il Gioco risulta avviluppato in un continuo bias di conferma, pericolo sommo, avvertono gli scienziati; trattandosi di una coperta con cui nascondere ogni ipotesi e interpretare a piacimento e secondo le proprie manie; attribuire valore, a partire dai propri vezzi, a qualunque parola utile alla causa; scorgere significati reconditi, metafore e profezie laddove non ve ne sono; lasciare risuonare l’eco delle proprie idiosincrasie; in definitiva illudersi. D’altronde siamo ormai abituati all’interpretazione di minuscoli segni e pittogrammi (gli emoji), costretti a una feroce esegesi di minuscole tracce di messaggi – scritti e vocali – che viene facile cadere in errore, e mettersi a giocare al Gioco delle premonizioni senza particolari sensi di colpa.
Bouvard et Pécuchet che cos’è se non è un romanzo in cui Flaubert aveva già capito che Internet sarebbe stata creata, e presto sarebbe diventata un’accozzaglia di saperi frantumati, gestita per lo più da cretini.
Alfred Kubin aveva predetto i social network in quel meraviglioso incubo letterario che è L’altra parte.
Kubin racconta un mondo parallelo e misterioso, affollato di pazzi, governato da un sovrano assoluto che tiene tutti sotto scacco. Racconta «una città artificiale, una messinscena perfetta, nella quale si muove una popolazione di nostalgici, di nevrastenici, di gente che fugge la vita del suo tempo e preferisce crogiolarsi in stati d’animo e sensazioni tra il mistico e l’estetizzante, tra il poetico e il morboso».
Eccole qui anticipate le nostre esistenze e soprattutto le reazioni di Facebook – ovvero le 6 facce che sintetizzano il giudizio di un essere umano – come catalogo finito, limitato, di emozioni. Scriveva Kubin: «i nostri abitanti provano soltanto stati d’animo, anzi meglio, vivono soltanto in stati d’animo; tutta l’esistenza esteriore, che essi si organizzano secondi i loro desideri con un lavoro in comune il più possibile coordinato, fornisce in certo qual modo solo il materiale grezzo». Dentro il social network lo stato d’animo leggiadro, volatile, impermanente, è tutto: motiva e sprona all’insulto e alla condivisione, alla lacrimuccia e all’indignazione. Capite quanto l’arbitrarietà sia l’elemento fondante di questo gioco, anche – e soprattutto – nella scelta delle citazioni. Scelta che mischia narcisismo (sbattere in faccia all’avversario romanzi meno battuti), vanità e fantasia, arte divinatoria e maestria nei tarocchi, libertà e perline colorate, direbbe un altro poeta. Vale tutto, e ci si attrezza come forse si attrezzavano i greci antichi davanti alle oscure parole dell’Oracolo di Delfi, senza la Pizia e per fortuna senza sacrifici e doni.
Va poi aggiunto alla lista “Le tre stimmate di Palmer Eldritch” di quel genio di Philip K. Dick. Scrittore, per la verità, fuori concorso perché troppo letto da quelli che poi l’Internet l’hanno realizzata davvero, quelli che l’hanno fatta con le proprie mani e modellando righe di codice una alla volta. Ma siccome me l’ha suggerito un caro amico non potevo sottrarmi e non metterlo qui, in questo elenco parziale. Capite bene che già siamo (!?) in pochi a giocare a questo gioco, se poi non si rimarcano i suggerimenti, il Gioco delle premonizioni finisce per trasformarsi in un solitario, e non va bene.
Ma tutta questa premessa è stata qui scritta perché un pellegrinaggio a Recanati mi ha condotto sulla strada di un altro, e nuovo, segnale. Seminascosta in una delle Operette morali, tra le minori potremmo dire – Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi, questo il titolo – dicevo, seminascosta c’è una premonizione bella e buona, di quelle cristalline, anche facili da scorgere quando vi si inciampa, sebbene poco praticata. Giacomo Leopardi annunciava, nel lontano 1824 e alla tenera età di 26 anni, l’avvento di un’età delle macchine: «non solo perché gli uomini di oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate o che si vanno tutto giorno trovando ed accomodando a tanti e così vari esercizi, che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita». Basterebbe questo ad aggiudicarsi una mano del Gioco, forse addirittura una partita intera.
Il poeta aveva previsto non solo l’oggi, ma aveva descritto delle macchine la tracotante ostinazione nel volersi accaparrare ogni spazio, ogni compito, ogni anfratto dell’esistente, le opere della vita appunto. D’altronde le missioni delle due techno-corporation, Google e Facebook, contengono elementi universali che ricordano questa frase di Leopardi.
Queste missioni posseggono uno sguardo globale, dunque presuntuoso, sul presente e sull’umanità con cui hanno a che fare; sarebbero perfette per campeggiare nella sala in cui si riunisce la plenaria di un organismo internazionale, e non in una brochure da regalare ai clienti o mostrare alla forza vendita (nessuna di queste due ipotesi, va detto, è contemplata dai tre sovrani delle techno-corporation per assenza di brochure e per assenza conclamata di forza vendite, svolgendo simili compiti, con facilità, la macchina stessa. L’esercizio, direbbe Leopardi).
- Google è quella macchina che è in grado di «organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili e utili».
- Facebook invece è una macchina che permette »alle persone di condividere contenuti e rendere il mondo più aperto e connesso», e in più di rendere “migliore” il mondo stesso, come recita un ultimo emendamento, proposto dal sovrano in persona.
Ma Leopardi, che è Leopardi, ringraziando il cielo, non si limita a scrivere una qualunque distopia in forma di ironia, e non irride soltanto l’essere umano perché alla macchina delegherà qualunque compito o fatica, egli va oltre. Si prende gioco del suo presente, e del nostro con 200 anni di vantaggio, avvertendoci che gli usi delle macchine potranno «venire a comprendere oltre che le cose materiali, anche le spirituali». E traccia un solco che i tre sovrani digitali devono sbrigarsi a colmare. Scrive il poeta: «per virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini, e da molti e simili mali e spaventi, così di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo di esempio, qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi».
(Eccola la lungimiranza nella previsione che rende il Gioco un gran Gioco).
Magari avessero inventato il paracalunnie!
Magari esistesse un’applicazione chiamata parafrodi (pensate alle sciocchezze che circolano in rete), o una che metta al riparo dalla perfidia – si può anche chiamare razzismo – che avvelena i pozzi del dibattito pubblico. I tre sovrani tecnologici-taumaturghi nulla possono per mettere in campo simili invenzioni, perché sono invenzioni impossibili. Nelle cose spirituali, per dirla con Leopardi, non possiamo affidarci alle macchine, alla loro tutela, alla loro capacità di giudizio o discernimento. Il vero e il falso sono difficili da separare per l’uomo, figuratevi per un algoritmo. Leopardi ci aveva messo sull’avviso. Questo per dire che una qualche utilità il Gioco delle premonizioni potrebbe anche averla, utilità pratica voglio dire; ad esempio, nel capire che qualunque soluzione si proponga per le notizie false, fasulle, per le bufale, è essa stessa una falsa notizia. Nessun algoritmo potrà mai funzionare da paracalunnie, l’unico modo è assumere uomini che controllino tutti gli altri uomini che scrivono stupidaggini (ma questo è un raccontino distopico di facile fattura). Capite bene, insomma, che sorvegliare, ed eventualmente punire, 2 miliardi e 200 milioni di esseri umani che possono scrivere bestialità è compito impossibile. Leopardi nella stessa Operetta morale predice anche una specie di robot: «un uomo artificiale a vapore, atto e ordinato a fare opere virtuose e magnanime». E chiede, mai richiesta fu più sensata, che chiunque metta in piedi un simile robot deve leggere, e leggere letteratura. Non solo manuali tecnici, ma «vegga i poemi e i romanzi, secondo i quali si dovrà governare circa le qualità e le operazioni che si richieggono a questo automato». E automato è parola sublime.
Un’altra previsione, che poi è un altro premio dell’Accademia dei Sillografi, puzza però di un orrido maschilismo primi dell’ottocento, ed è una macchina in forma di donna: «disposta a fare gli uffici di una donna conforme a quanto immaginato da Baldassar Castiglione». E aggiunge che l’invenzione di questa macchina non «dovrà parer impossibile agli uomini dei nostri tempi».
Infine Leopardi anticipa l’esistenza stessa dei social network o almeno sembra possibile leggere così le sue parole, nel mondo arbitrario del Gioco delle premonizioni. Il poeta pensa a una macchina che potrà «fare le parti e la persona di un amico, il quale non biasimi e non motteggi l’amico assente; non lasci di sostenerlo…; non anteponga la fama di acuto e di mordace, e l’ottenere il riso degli uomini, al debito dell’amicizia».
Anticipa il social network Leopardi, non tanto perché descrive una macchina in cui è presente un amico, o perché associa alla macchina la parola “amico”, parola così importante nell’universo sociale digitale e nella sua metafisica. Ma perché – a dirla tutta – sta travalicando i confini presenti del social network stesso che fonda il suo successo planetario sulla relazione tra le persone. Sulla presunta amicizia e condivisione di contenuti e interessi. In realtà Leopardi disegna un limite che proprio adesso stiamo superando. Questo è il vero senso del Gioco: e cioè andar oltre le parole di uno scrittore, aprire la sua Opera e fargli dire quel che egli non dice e non potrà mai dire. Leopardi in questo passo sembra prevedere che il social network stesso è diventato nostro amico, un super-amico che contiene altre centinaia di amici, addirittura milioni; una macchina così gonfia di amici che basta entrarci per sentirci a nostra agio, che rassicuri, distragga e protegga.
La macchina ha dapprima preso la forma dell’oracolo (cui porre domande, cui porre tutte le domande del mondo, comprese quelle mai poste prima), e poi di talismano dell’amicizia stessa. Non conta chi vi sia dentro, non conta la relazione, non conta lo scambio e la condivisione, purtroppo è il semplice stare lì dentro che assume valore, che riempie di senso l’apertura dell’applicazione, che attenua un bisogno e allevia una frustrazione. Scorrere la timeline è consegnare alla macchina «le parti e la persona di un amico», come dice Giacomo Leopardi. Purtroppo il Gioco è un Gioco, e come tale al giocatore resta solo una nuda brama di competere, sapendo che tutto finirà quando egli si alzerà dal tavolo verde. E così a noi toccherà andare alla ricerca di un nuovo testo sperando di trovare tracce di premonizioni, sperando di aver la forza e la capacità di scorgerle prima che qualcun altro lo faccia.