Accanto alla macchina di Ellen Ullman (Minimum Fax, 2018) avrebbe bisogno di un’avvertenza, una fascetta che però il lettore dovrebbe immediatamente dimenticare. L’avvertenza è che il volume è stato scritto nel 1997. Nel lontano 1997 la costruzione del mito della Silicon Valley era agli albori. Proprio il 1997 è l’anno in cui il dominio di Google viene registrato, Larry Page e Sergey Brin fonderanno la società l’anno successivo; Facebook non era nemmeno nella mente del tredicenne Mark Zuckerberg, Amazon era una creatura di soli 3 anni. Eppure in quel periodo il world wide web, per come lo conosciamo, iniziava a prendere forma: il browser Netscape nasce nel 1994. Sembra insomma trascorsa un’era geologica, e quindi l’avvertenza al lettore è per ricordargli che il sottotitolo scelto dall’editore “La mia vita nella Silicon Valley” non rimanda al presente, non racconta una storia della California di oggi, rimanda piuttosto alla preistoria di Internet (sebbene siano trascorsi solo due decenni di preistoria si tratta) e alla pubertà dell’informatica.
Eppure, come dicevamo, questa stessa avvertenza conviene dimenticarla in fretta, per varie ragioni.
La prima è che si tratta di un romanzo non di un saggio, un romanzo che però non è un romanzo storico, e quindi possiamo facilmente prescindere dall’epoca in cui i fatti si svolgono. Il libro potrebbe essere derubricato alla voce non-fiction, così gli americani descrivono ciò che non è parto esclusivo della fantasia dell’autore, oppure memoir per la componente biografica, ma a parer mio questo volume ha le fattezze di un romanzo. Ullman ha applicato il proprio personale filtro nella costruzione della storia e nella definizione dei caratteri dei personaggi e questo filtro ha smantellato ogni velleità saggistica, di cronaca o di inchiesta. Pure la descrizione di una regione, la California, la Silicon Valley, che tanto ha contato nella creazione della supremazia digitale americana sul resto del mondo, rimane un elemento secondario, sta sullo sfondo; nessun lustrino e paillette adorna uno spazio geo-economico bruttino con poche attrazioni turistiche o elementi distintivi, a parte la mostruosa quantità di intelligenze che vivono laggiù.
La seconda e più importante ragione per cui possiamo dimenticare che stiamo leggendo un volume del 1997, è che Ullman racconta una storia senza tempo, una storia buona anche nell’oggi; accende un cono di luce che illumina la relazione tra gli uomini e le macchine, e che illumina le relazioni che prendono forma tra gli esseri umani che nella vita si occupano di macchine, macchine digitali.
Passiamo quindi a capire perché questo volume merita di essere letto. Nella prima parte dei libro l’autrice ci conduce per mano a curiosare nel retrobottega dove prendono corpo le interazioni tra noi umani e un oggetto digitale. Retrobottega in cui si respira un’atmosfera depressa: di un individualismo che facilmente scade nella solitudine con cui tutti gli attori del libro sembrano dover combattere; una specie di destino collettivo, necessario, generazionale. Ullman ci porta nella fabbrica digitale dove gli operai del codice costruiscono e scrivono, una alla volta, le righe di un linguaggio comprensibile a una limitata categoria di uomini, i programmatori, e alla macchina stessa. Il prodotto è quel manufatto digitale che poi le persone utilizzeranno. Nella fabbrica l’elemento dialettico tra la macchina e chi gli soffia la vita parte da una solida, triste eppure limpida, base di logica formale. Senza la logica qualunque programma, qualunque algoritmo diremmo oggi, non esiste e non funziona per gli scopi per i quali l’essere umano lo crea. Il programma è un sistema, ci racconta la Ullman, e con il sistema siamo chiamati a fare i conti. Che questo sistema sia poi un applicativo di gestione per le buste paga o un software che risponde alle domande dell’intera umanità poco cambia, si tratta di un sistema che offre risposte e molto altro.
«Il sistema è tuo, i dati sono tuoi – scrive Ullman – è tutto in tuo potere; e non appena il sistema ti conferisce questo potere, non puoi impedirti di volerne di più».
Sono passati vent’anni eppure le logiche di potere che stanno dietro a un software sembrano essere immutate. Pensate alla gestione dei dati delle persone di un social network, e a quel tanto di Faustismo che questa gestione di dati può instillare e solleticare nell’essere umano che vi partecipa.
Scrive la Ullman: «Pensiamo di creare un sistema per i nostri scopi. Pensiamo di crearlo a nostra immagine. Chiamiamo il processore “cervello”, diciamo che i computer hanno “memoria”. Ma non sono come noi. Sono una proiezione di una parte molto sottile di noi stessi: quella in cui regnano la logica, l’ordine, la chiarezza». Quando questa necessaria, doverosa, rigidità formale che è l’architrave di qualunque sistema digitale entra in contatto con una una busta paga non accade nulla, ma se tocca una materia preziosa come le emozioni umane, se sfida il regno della conoscenza umana nel suo complesso il composto che ne scaturisce può diventare altamente instabile. Detto in altri termini, la psicografia, come l’ha sviluppata da Cambridge Analytica, ha sfruttato tutta la chirurgica e analitica precisione di Facebook nel sezionare i gusti delle persone per tentare di orientare il dibattito elettorale americano che ha condotto all’elezione di Donald Trump. Una precisione in cui questa benedetta logica è il cardine di una costruzione impeccabile, solida, proprio perché con ordine vengono messi in fila gusti, preferenze, idiosincrasie e amicizie di milioni di uomini e donne.
Se questa parte del libro è più che mai attuale, altrettanto lo è la seconda parte. Quella in cui l’autrice ci illumina sui tratti peculiari dell’essere umano, per lo più, di sesso maschile, che abita la Silicon Valley. E lo fa, da buona scrittrice, in maniera crudele; con lo sguardo di un entomologo mette sotto il microscopio un personaggio e gli inchioda, come una farfalla, le ali al quadro delle sue responsabilità e delle sue convinzioni. Utilizza Brian, giovane amante della protagonista, per dipingere un archetipo di esaltato dal fuoco digitale che pure oggi popola la costa Ovest degli Stati Uniti, e in versione sbiadita e macchiettistica possiamo rintracciare anche qui da noi. Esaltazione tutta rivolta alle prospettive mirabili delle macchine, alle possibilità lunari delle macchine, alla ricchezza che dalle stesse macchine può scaturire. Un’esaltazione misera dal punto di vista etico, ed etico è la parola che mette in crisi la protagonista nella relazione con questo ragazzo, esaltazione – infine – che ha un suo contraltare nel “dolor cupo e vivo” che arde sotto l’apparente freddezza nei sentimenti.
«Brian è perfetto. Non poteva trovarsi una parte migliore di quella del genio con lo skateboard. Il suo aspetto ricalca perfettamente ciò che ci si attende da un maggio dell’informatica: infantile, brillante, spaventoso». Anche oggi i giovani titani della Silicon Valley si identificano alla perfezione con questi tre aggettivi e l’ultimo ci inquieta ogni giorno di più.
Avrebbe potuto di più Ullman, e invece è solo un cenno, raccontare l’ossessione per il denaro che muove gli spiriti animali della Silicon Valley. Avremmo voluto sapere e conoscere meglio, ma forse la storia del virile desiderio di arricchirsi è più semplice, addirittura banale, di come la immaginiamo da quaggiù.
Scrive l’autrice: «“Bè, magari hanno una buona idea, e…”. Ha lasciato cadere la frase, ed è rimasto immobile a guardarsi le mani, esili e pallide. (…) Le sue erano idee la cui bontà si esprimeva principalmente attraverso il fatturato che potevano generare, le percentuali di crescita che potevano garantire all’azienda, la magnificenza dell’abitazione del CEO, l’apprezzamento dei pacchetti azionari».
Pure in questo caso Accanto alla macchina non è invecchiato. Nel mostruoso arricchirsi dell’efebocrazia digitale, anche oggi, non v’è nulla di particolarmente originale, ideale. Soldi e basta.