I problemi di Google
(25 giugno 2020)
🔴 Alla fine del 2020 le entrate pubblicitarie statunitensi di Google (e di conseguenza anche nel resto del mondo) potrebbero diminuire; questo è il titolo di un pezzo del Wall Street Journal. Fa sorridere se si pensa al disastro che investirà quasi ogni settore dell’economia. Dalle parti della Silicon Valley qualcosa potrebbe andare storto, il che equivale a meno soldi guadagnati, badate bene, non a perdite.
➡️ Il problema arriva dagli investimenti pubblicitari di tutta l’industria del turismo. Comparto che da solo vale l’11% dei ricavi del motore di ricerca. Con gli aerei a terra, gli alberghi chiusi e le navi da crociera nei porti, inutile mettere annunci su Google.
E anche Facebook ha qualche problema.
Negli Stati Uniti un gruppo di aziende ha deciso che non investirà più nelle piattaforme di Zuckerberg, quindi anche su Instagram, finché il social network non risolverà i temi legai al discorso di odio.
Patagonia, North Face e adesso anche il colosso dei gelati Ben & Jerry non spenderanno soldi per promuovere i loro contenuti lì dentro. Anche 360i, una grande agenzia pubblicitaria giapponese, ha sostenuto il boicottaggio di Facebook. L’ennesima grana. Sarà crucciato il giovane Mark?
Non direi. Il mercato pubblicitario negli Stati Uniti avrà una contrazione del 7% (secondo e-Marketer). In compenso la pubblicità digitale aumenterà la sua quota e il beneficiario sarà – come sempre – il triopolio Amazon, Facebook e Google. E proprio Facebook, secondo le previsioni, aumenterà i suoi ricavi in America.
📌 La verità è che nonostante i tanti problemi che intralciano la vita del social network, questo continua a essere la migliore piattaforma pubblicitaria fin qui inventata dall’uomo. Nulla di paragonabile alla televisione, figuriamoci ai giornali. Chi oggi lo boicotta potrebbe decidere di spostarsi su social rivali, come TikTok. Più in generale sarà interessante capire se brand importanti, come Ben & Jerry e Patagonia, hanno già in mente soluzioni alternative che vadano oltre il plauso di molti per la decisione di boicottare Facebook.
Dobbiamo ammettere che costruire un pubblico lontano dal social di Zuckerberg è davvero complicato. Anche la scelta di aprire un canale Telegram, come quello in cui state leggendo queste righe, va nella direzione di evitare la prospettiva di business – soldi in cambio di audience – che propone Facebook.
Che sia la soluzione giusta è ancora presto per dirlo.
Boicottare Facebook
(27 giugno 2020)
Di sostanziale Mark Zuckerberg non ha fatto nulla, perché nulla può fare. Torna sempre alle solite soluzioni: ovvero etichettare e segnalare i post che incitano all’odio nel momento in cui qualcuno se ne accorge, nel momento in cui diventano virali.
Il suo problema più grave, in questo momento, però non è l’odio, non sono i post di Donald Trump, non è la politica, ma i ricavi della sua azienda. Oltre alle aziende di cui vi ho raccontato qualche giorno fa, anche altri colossi hanno deciso di sospendere le inserzioni all’interno del social network.
E non due aziende qualunque: Coca-Cola e Unilever (da Lipton a Calvé, da Algida a Findus) non faranno pubblicità sui social di Zuckerberg e su Twitter per il 2020, nei soli Stati Uniti. Decisione d’impatto ma limitata.
Vedremo per quanto tempo decideranno di star fuori. Il dilemma per due società che contano su marketing e pubblicità come l’aria in cui respiriamo è semplice: non utilizzare il sistema di advertising più efficiente ed economico del mondo, oppure tenere una posizione politica come quella espressa dall’hashtag: stop hate for profit?
🔴Fintantoché qualcuno non inventerà un social popolato e con un sistema di targhettizzazione del pubblico preciso come Facebook, le aziende continueranno a usare Facebook.
E il fatto che il boicottaggio si limiti agli Stati Uniti indica che la decisione sarà temporanea e limitata. Rinunciare a un’audience così vasta e così segmentata, per un tempo troppo lungo, potrebbe essere pericoloso per i conti di queste aziende, molto di più che esprimere una lodevole posizione di principio. Business is business.
➡️ (In fondo è il dilemma di molti utenti, stare in un social network dove ci sono tutti, con i limiti del sovraffollamento, o stare in uno dove si è in pochi ma buoni?)
Il compleanno dell’iPhone
(29 giugno 2020)
Oggi, 13 anni fa, veniva presentato il primo iPhone.
Anche Steve Jobs, che pure lo creò assieme ad altri, pensava che avrebbe reinventato il telefono, invece della nostra vita. Per me l’elemento caratterizzante di questo oggetto – un talismano di relazioni, azioni e conoscenza – è il suo magnetismo. Nel senso dell’inesauribile capacità di calamitare, prescindendo dalla nostra, volontà, l’attenzione di chi lo possiede, per ore e ore al giorno, più di qualunque altro oggetto nella storia dell’umanità, televisione compresa.
Vivere senza Facebook
(1 luglio 2020)
E se domani d’incanto – travolto dalle polemiche – Facebook sparisse? Non sparirà, è solo un gioco. L’idea è quella di capire cosa faranno quelle aziende come Levi’s, Starbuck’s, CocaCola e che hanno deciso di fare pubblicità ovunque tranne che su Facebook e Instagram. Dove spenderanno i loro budget miliardari di advertising?
1. Per prima cosa finiranno su Google e Youtube che beneficeranno dell’ennesima crisi di reputazione di Facebook; allo stesso modo di Amazon che vedrà incrementare la quota di pubblicità di chi vende prodotti che si possono compare nel suo store.
2. Coloro che se lo possono permettere andranno su TikTok. Non tutti certo, chi ha clienti anziani o di mezza età non può sbarcare, senza sembrare ridicolo, in una piazza popolata da adolescenti e tardo-adolescenti (il 69% degli utenti ha massimo 24 anni). In ogni caso in classifica è il 6° al mondo, abbondantemente dopo Facebook, Instagram, WhatsApp e WeChat.
3. Oltre a TikTok c’è sempre Snapchat (poco più di 210 milioni di utenti attivi ogni giorno), molto simile a Instagram (Zuck ne copiò molte funzioni, a suo tempo) ma con numeri incomparabili, al ribasso.
4. Un altro social network interessante è Pinterest. Pubblico per lo più di donne e madri (oltre 2/3), utenti poco al di sopra dei 330 milioni, e con un reddito più alto della media. Interessante perché – come Instagram, più di Instagram – è un social tutto visuale.
5. Poi c’è LinkedIn che è il social network professionale, anche questo non è per tutti: se vendo bikini sarà difficile trovare una nicchia che apprezzi il mio prodotto lì dentro.
➡️ 6. In Italia lo pratichiamo poco, ma esiste un social network che si chiama Reddit (430 milioni di utenti attivi al mese). Un social che ricorda le origini di Internet con le vecchie BBS (bulletin board system), che erano bacheche digitali in cui si discuteva davvero di tutto. Oggi Reddit è una mega agorà e una fabbrica straordinaria di Meme. Fateci un giro non ve ne pentirete. Pubblicità? In teoria esiste ma non vedo Unilever a investire lì dentro.
📌 7. Esistono poi una miriade di social network iper settoriali: da Strava, pensato per chi corre a Wattpad per chi scrive storie e per chi ne legge. Andare a cercare il social network per una nicchia e investire lì dentro potrebbe essere una idea sensata.
🔴 La verità è che queste aziende saranno costretta a investire in pubblicità con un orizzonte completamente differente. Facebook non scomparirà certo e – con molta probabilità – alla fine i reprobi torneranno all’ovile del munifico Mark.
➡️ Nell’attesa di tornare però, i grandi brand dovranno:
• costruire comunità intorno a contenuti proprietari (per lo più video e podcast);
• potenziare le newsletter, magari differenziandole per prodotto o per tipologie di clienti;
• utilizzare le dirette video per parlare con frequenza ai propri pubblici;
• aprire canali su Telegram per rivolgersi a un pubblico vasto a piacere, ma con il limite dell’assenza di interattività.
Staremo a vedere.
Dentro il cervello di Microsoft
(3 luglio 2020)
Poche cose le techno-corporation sanno fare bene come costruire un racconto in cui la tecnologia salva e aiuta il mondo. Una dimensione universale salvifica, una rappresentazione del digitale come sovrano taumaturgo del mondo del lavoro.
Microsoft è – prima di Apple – una grande e moderna techno-corp. In gioventù ha scalfito l’immagine ingessata di big blue IBM, conquistato copertine in tutto il mondo, lanciato fondatori (Gates e Allen) che – per primi – andavano in giro in maglietta, nerd così di successoche dovettero inventarsi il nome geek perché erano troppo ricchi per farsi prendere in giro. Poi, certo, si è fatta scippare lo scettro dell’innovazione da chi conosceva meglio di chiunque altro le regole dell’attrazione (per citare un romanzo dell’epoca di questa battaglia) da un mago del marketing come Steve Jobs. Che relegò Microsoft nella classe dei secchioni ricchi ma senza particolare inventiva.
Oggi Microsoft somiglia ad altro, anche Bill Gates somiglia ad un altro se stesso (nonostante l’enorme mole di fandonie sul vaccino di Covid19, il documentario che Netflix gli ha dedicato, compone un racconto di un genio, senza troppi giri di parole). Il merito di questa lo dicono tutti è del CEO: Satya Nardella, manager di successo, scaltro, simpatico, intelligentissimo e anche un po’ guru di un certo modo di fare impresa, nella gestione di tempo e persone.
Fatto sta che Microsoft oggi sembra davvero un’azienda differente rispetto a quella che lasciò Gates quando si mise a fare il filantropo. Un’azienda che riesce a modellare quella taumaturgia tecnologica esaltandola in un’operazione umanitaria, di formazione solidale e di miglioramento della reputazione aziendale pazzesca (ciò che resta del capitalismo italiano, dovrebbe prendere appunti e provare a emulare, se ne è capace).
Ecco la notizia (lo so che va in testa, perdonatemi): l’azienda di Seattle da qui alla fine dell’anno offrirà corsi di formazione, da remoto e nel digitale, a 25 milioni di persone, gratuitamente. Avete letto bene.
Il punto di partenza – in un post del blog aziendale molto documentato e che invito a leggere, in chiusura trovate il link – risiede nella considerazione che automazione e intelligenza artificiale stanno cambiando il lavoro (non solo il modo di lavorare, proprio il lavoro), che i lavori manuali sono i più a rischio, che le donne, le comunità afroamericane e ispaniche sono le più colpite dalla marea montante di disoccupazione.
Nel frattempo l’aumento dei servizi digitali a banda larga richiede persone con competenze digitali specifiche che non ci sono. Ecco qui l’offerta di Microsoft: 25 milioni di dollari per 25 milioni di persone, risorse destinate a organizzazioni no profit che lavorano nella formazione e di questi soldi, 5 milioni andranno a enti impegnati nelle comunità afroamericane.
L’operazione ruota attorno a un social network, LinkedIn, piattaforma sulla quale verrà calcolato il fabbisogno di competenze sfruttando i big data.
Microsoft ha già individuato i 10 lavori sui quali investirà:
- Sviluppatore di software
- Agente di vendita
- Project manager
- Amministratore IT
- Addetto al servizio clienti
- Specialista di marketing digitale
- Help desk nell’IT
- Analista dei dati (in italiano suona malissimo)
- Analista finanziario
- Grafico
La formazione sarà gratuita fino a marzo 2021 su LinkedIn, e ci saranno sconti importanti sulle certificazioni Microsoft per chi dimostrerà che il suo lavoro è finito nel tritacarne del Covid19.
L’iniziativa sembra seria. La tecnologia, in questo caso, potrà svolgere davvero funzione taumaturgica, nel senso che aiuterà molte persone a trovare un nuovo lavoro, di questo possiamo stare certi. Ma l’operazione di comunicazione è immensa: platea mondiale, numeri importanti, attenzione alle minoranze, individuazione di un problema enorme e di una strada concreta per risolverne una frazione minima, ma reale.
Certo Microsoft fattura 125 miliardi di dollari l’anno, 25 milioni sono briciole. Ma briciole investite con intelligenza assoluta. Gente che ha cervello, come quello di Bill Gates.
Qui il link al blog di Microsoft: https://bit.ly/2ZwTy8s
Un nuovo social?
(5 luglio 2020)
🔴 Stiamo assistendo alla nascita di un nuovo social network?
Può essere, anche perché sembra che il futuro sia sempre di più – ne ho parlato proprio qui – per le reti sociali più piccole, dedicate ad argomenti specifici che raccolgono comunità di interesse molto motivate.
Ma esistono anche piattaforme che si trasformano, loro malgrado, potremmo dire in social network. È il caso di Google Doc che non ha mai smesso di essere uno spazio alternativo per i più giovani, quando non avevano a disposizione lo smartphone. E che, con le manifestazioni contro il razzismo negli Stati Uniti, ha davvero incarnato il ruolo di un nuovo social network rudimentale ma essenziale. Il modello, ricorda Francesco Oggiano, è quello realizzato da Carlisa Johnson per Black Lives Matter, una enorme lenzuolata di notizie utili per chi vuole partecipare e informarsi, ma anche informazioni pratiche come numeri di telefono degli avvocati. (Più sotto trovate lascio il link).
L’idea è quella di un tazebao che si arricchisce giorno dopo giorno; invece di un giornale murale immaginate un link che si condivide di persona in persona, circolando all’interno di comunità che hanno interesse rispetto al tema di quel documento.
➡️ Uno spazio in cui inserire contenuti, immagini, link, risorse di qualunque tipo senza doversi produrre in uno sforzo di formattazione o di abbellimento, senza insomma l’obbligo della performance digitale.
Il foglio di testo si può condividere semplicemente grazie a un link, può essere aggiornato da uno solo o da molti. Può insomma tornare a essere quello che erano un tempo i forum di discussione, ma ancora di più le directory di risorse composte da umani e non dall’intelligenza artificiale.
Questa mi sembra una delle funzioni più interessanti dei documenti condivisi, l’aspetto partecipativo.
Pensate alle tante chat di gruppo di cui vorreste conservare pezzi di discussione, salvandole dal rumore della discussione quotidiana, ai consigli di lettura richiesti via mail o via messaggi che meriterebbero di essere ampliati e condivisi.
Ma scrivere è spesso stimolo per continuare a scrivere, e scrivere d’altro.
📌📌 Ecco perché ho pensato che vi proporrò un documento condiviso in cui consigliarvi libri per le vacanze estive (e non solo). Documento che parte da una considerazione: i libri che mi sento di consigliare sono quasi sempre gli stessi (tolti i classici), e aumentano di poche unità con estrema parsimonia; soltanto quando scovo un piccolo capolavoro che merita di essere proposto.
Piccoli romanzi, nel senso di agili, esili, capolavori, a mio insindacabile giudizio.
Consigli per fuggire da quel magnete dell’attenzione che tenete tra le mani mentre leggete queste righe. Non saranno recensioni, ma semplici consigli con due righe di accompagnamento.
📌 Solo autori morti, ché dei vivi abbiamo in abbondanza recensioni e celebrazioni: di chi non c’è più rimane l’opera, e se questa non sopravvive alla tambureggiante forza della comunicazione si vede che non aveva forza per sedurre e incantare, per essere davvero opera. La morte o l’inesistenza dell’autore rappresentano il primo e migliore reagente critico per cominciare a osservare la bellezza di qualunque romanzo.
Infine saranno racconti in cui il digitale non esiste, non compare, non è né protagonista, né tantomeno comprimario. Di digitale parliamo qui dentro.
➡️➡️(Ecco il link al Google Doc nato per aiutare le persone durante le manifestazioni di #BLM > bit.ly/BlackLivesAction)