La tecnologia e lo spazio digitale hanno smarrito, da un pezzo, il fascino oscuro dei racconti Cyberpunk. Non a caso c’è chi afferma che il Cyberpunk sia morto, ed è cosa possibile. Quell’universo narrativo, in cui l’essere umano attraversava cupi panorami piovosi, tra insegne al neon balbettanti di motel in cui gli inservienti in verità erano cyborg, un orizzonte di macchine crudeli che miravano al dominio totale, alla nostra riduzione in schiavitù, e ai personaggi non rimaneva che fuggire sottoterra, sottotraccia in un altrove in forma di codice, ecco quell’universo di scritti e scrittori possedeva un fascino enorme.
IL CYBERPUNK
Il Cyberpunk era letteratura, ma era anche estetica, era la meraviglia dei fondali del film Blade Runner, ed era immaginario e pensiero sul destino dei nostri sentimenti nella relazione con l’artificiale. Si dice che William Gibson, che del Cyperpunk è l’augusto genitore, avesse visto con riluttanza il film di Ridley Scott proprio mentre scriveva Neuromante, temendo potesse fin troppo influire sul suo romanzo. Quell’ambiente – fosco e seducente – ha smesso di essere solo parole nelle pagine e si è trasformato prima nella mappa e poi nel territorio. Gibson ha inventato il cyberspazio prima che il cyberspazio esistesse, come «una dimensione immersiva e virtuale. Un regno di dati pienamente realizzato – “reticoli luminosi della logica che si dispiegano attraverso un vuoto incolore”». In quei racconti oscillavamo tra un buio totale e le lampade al neon delle server farm, il pendolo si muoveva tra lo scuro claustrofobico e la luce ghiaccia di un angusto laboratorio in cui si impiantano elettrodi nel cervello, sonde per approdare a nuove dimensioni, per combattere, per fuggire o morire, per tentare – in ultima analisi – di capire.
Oggi la tecnologia ha mutato estetica. Il digitale, che della tecnologia incarna la parte emersa, si dischiude in un panorama splendente, efficiente, brillante; una superficie liscia, confortevole, in cui la macchina appare costantemente al nostro servizio. L’orizzonte assume le tinte pastello di Caduta libera, celebre episodio di Black Mirror sul credito sociale; le stesse nuance di colori di uno degli hashtag più usati su Instagram: #sunset. Abitiamo un mondo digitale che somiglia a un maglione d’angora, un tessuto morbido che si modella sulle nostre forme e sui nostri apparenti bisogni, dimenticando volontariamente quanto accade sotto la superficie delle cose. E sotto la superficie molto accade, altri e antichi conflitti non hanno esaurito la loro energia: forze primigenie entrano in collisione, si assiste a scontri titanici nello stesso identico reticolo luminoso che si dispiega attraverso un vuoto incolore di cui parlava Gibson. Come fosse l’esito di tutta la letteratura Cyberpunk, il capitolo finale che ci pone di fronte alla possibile transizione tra umano e post-umano, uno dei protagonisti di questa storia dice: «non avete ancora visto niente!»
Anche nella filosofia, e in continuità con quanto scrivevano gli autori Cyberpunk, esiste un mondo ipogeo, reale seppure allucinato, prolifico e longevo, che ha prodotto analisi e soluzioni per interpretare l’enorme – e biblica – fase di passaggio che il genere umano sta attraversando. Una fase di passaggio in cui il capitalismo ha preso la forma della sorveglianza, per dirla con Shoshana Zuboff, e la tecnologia svolge un ruolo centrale nel destino dell’umanità, a prescindere da quanto l’umanità ritenga di poter controllare o possedere le stesse macchine. Questo mondo ipogeo, come tutte le faccende sotterranee, emerge in luoghi inattesi, con itinerari imprevisti e imprevedibili.
Lo definisco ipogeo rispetto ad alcuni luoghi e forme della cultura tradizionale o dell’innovazione nella diffusione culturale: le pagine dei giornali (lo dico senza alcuna valenza negativa), le aule universitarie, i convegni, i festival (belli, ma la sensazione è che ascoltare gli scrittori abbia sostituito leggere gli scrittori), i social, i blog, le riviste online (che fanno un lavoro secondo me notevole) i palchi dei TED (sui quali comincio a nutrire qualche dubbio, per quel meccanismo di erosione dei tempi che strangola qualsiasi discorso meritevole d’essere ascoltato). Insomma ipogeo perché la riflessione che lì sotto ha preso corpo, ha ottenuto uno scarso accesso alla luce della superficie.
CHE COS’È L’ACCELERAZIONISMO
Il mondo di sopra s’è insomma dimenticato, o ha finto di dimenticare, e ha poco praticato quella teoria, quell’utopia (e quell’anti-prassi) che porta il nome di accelerazionismo; corrente filosofica che animava il mondo ipogeo con riflessioni che somigliano ai bagliori tra i quali si muove ondeggiando la nave di Rick Deckard in Blade Runner, lampi di fuoco lontani, di cui non è facile cogliere la portata, ma che – alla fine – illuminano una parte di percorso nelle profonde gallerie sotterrane.
Finiamola qui con la metafora e mettiamo in chiaro cosa è l’accelerazionismo: «l’idea secondo cui l’unico modo per andare oltre il sistema capitalistico sarebbe quello di accelerarne la tendenza alla disgregazione, di spingersi ancora più a fondo all’interno delle sue dinamiche, vivendone appieno i processi ed esperendone in massimo grado le contraddizioni».
Quel mondo ipogeo possedeva le sembianze di un’aula universitaria del dipartimento di filosofia dell’Ateneo di Warwick, Leamington SPA, UK, dove nasce a metà degli anni ’90 la CCRU: Cibernetic Culture Research Unit guidata da Sadie Plant e Nick Land.
Come spiega Tiziano Cancelli nell’ottimo “How to accelerate, introduzione all’accelerazionismo” (Tlon, 13€) la CCRU era «un team di ricerca composto da vari personaggi appartenenti trasversalmente al mondo dell’arte, della musica, della politica e della filosofia, decisi a sperimentare le implicazioni teoretiche e pratiche di tutti questi piani all’interno del nuovo orizzonte, tecnologicamente mediato, dischiusosi come la fine delle grandi ideologie novecentesche». Quelli della CCRU leggevano Lovecraft, Aleister Crowley, Nietzsche, Deleuze e Guattari, al ritmo della musica jungle, tentavano un’esegesi «allucinata di Terminator, Blade Runner e Neuromante». Un bell’articolo, di una rivista italiana online, descrive la CCRU «come un semplice gruppo di studio interdisciplinare, oppure una banda di ricercatori particolarmente intrepidi, oppure una setta, o addirittura una cospirazione. All’epoca venne interpretata come poco più che una nota di colore nel contesto della nascente internet culture anglofona, una specie di negativo avariato del tecno-ottimismo neolib di riviste come Wired», eppure questo gruppo apparentemente bizzarro, a posteriori, si sarebbe rivelato «una delle esperienze più influenti sull’odierno dibattito politico-filosofico».
Nella visione accelerazionista, in ogni caso, le storie, i racconti, la finzione, la letteratura e più in generale un certo immaginario, quindi il Cyberpunk e non solo, si trasformano in visioni del futuro che «consentono – spiega Cancelli – di sovvertire l’ordine lineare del tempo a tal punto da permettere, con largo anticipo, la teorizzazione di tecnologie destinate a riconfigurare profondamente il piano del reale, come il caso di internet». Tutto questo gli accelerazionisti lo chiariscono facendo leva sul concetto di iperstizione: «una sorta di profezia autoavverante, un’idea sul futuro che prende forza e concretezza grazie alla propria capacità di operare sul presente». Dalla finzione, dalla science fiction si passa alla theory fiction, che non pretende di predire il futuro, non ha nemmeno «a che fare con il futuro in quanto tale, ma con il futuro che “infesta” (hunts) il presente».
Cancelli sintetizza il processo, scrivendo che ciò che stiamo vivendo «contiene elementi di “futurabilità” che la fiction è in grado di intercettare». La magia borgesiana della letteratura appartiene a questa sfera di capacità predittive affidate ai racconti, ancora meglio di capacità di infilarsi negli interstizi del presente per scovare passaggi inediti, alternativi, sincronici.
Basterebbe ricordare, ricordarci, che William Gibson in Neuromante, romanzo del 1984 (1984….), immagina, crea, racconta o predice – scegliete il verbo meno perturbante – il cyberspazio con queste parole: «un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione (…) Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati». Una mappa di quello che sarebbe stata l’esistenza nelle sue proporzioni digitali; le pagine di Gibson costituivano la cornice in cui qualcun altro avrebbe poi inscritto l’uomo vitruviano digitale, armonicamente incorporato nella rete e nelle sue infinite forme.
Internet nasce nel 1969, ma si avvicina a quel che conosciamo e abitiamo oggi nel 1991, grazie all’invenzione del world wide web. Gibson non è il solo ad aver visto in anticipo il futuro, continuiamo a leggere storie anche per questo: George Orwell, Borges stesso, ovviamente Philip K. Dick – non solo con Total Recall (Ricordiamo per voi) e Blade Runner (Perché gli androidi sognano pecore elettriche?) ma anche con Le tre stimmate di Palmer Eldtrich – e poi Giacomo Leopardi, Alfred Kubin, Flaubert, in un Gioco delle premonizioni di cui ho già scritto. Elenco questo che ammette tutte le profonde differenze del caso, dacché la letteratura – per fortuna – non si esaurisce in una palla di vetro, ma rappresenta molto altro.
E se la fiction svolge un ruolo divinatorio rispetto al futuro, senza la tecnologia l’accelerazionismo proprio non esisterebbe, sarebbe letteralmente inconcepibile. Il progresso per Land diventa l’espressione di un’energia caotica, rivoluzionaria che vede l’uomo come una «tappa intermedia di un processo più grande nel quale sarà il silicio a prendere il posto della carne e del sangue». E qui intorno si aprono tutte quelle discussioni, più attuali che mai, intorno all’intelligenza artificiale generale, alle sue derive malevole e alle pieghe che potrebbe prendere la singolarità, il giorno in cui i computer diventeranno più intelligenti degli umani.
Scrive Cancelli: «accelerare il processo dissolutivo del capitalismo, parteggiando per le sue tendenze più disgreganti, è l’unico modo per guadagnarsi una via di fuga e garantirsi la possibilità di esplorare l’universo del “postumano” svelatosi grazie alla potenza della mediazione tecnologica: il desiderio è divenuto macchina». Affermazione che evoca le immagini di tanti film in cui la sintesi perfetta, desiderabile, tra uomo e macchina si realizza nei cyborg (Crash, Johnny Mnemonic, Total Recall di nuovo), e l’orizzonte si richiude su se stesso, come in una scena di Inception: sfuma la differenza tra matrice e realtà, tra le finzioni, le ombre e la grotta che abitiamo. Che l’accelerazionismo soffra o goda delle contingenze – allucinate, lisergiche, paranoiche – in cui è nato appare evidente. Soprattutto nella convinzione che tutte le relazioni umane e familiari, le società, si ritrovino di fronte a un immenso “dispositivo di controllo biodispotico” che non sta lì solo per sorvegliarci o per guadagnare enormi somme di denaro, ma per «“proteggere” l’essere umano dalla forza abissale del caos», di un Altrove che però, in inglese, suona come Outside, quindi un fuori che è anche un oltre. Ecco perché il capitalismo è l’unico modo per andare a vedere il futuro, per capire quel che succederà, per «rompere con l’umanesimo e assecondare quella forza oscura simboleggiata dalla parabola teleologica della tecnologia, fino a scoprire, in un modo che ricorda da vicino il metodo seguito da Nietzsche, che cosa c’è oltre l’umano».
L’EREDITÀ
I paradisi artificiali dell’Università di Warwick hanno lasciato eredità multiple, caotiche, confuse, eredità politiche contrastanti. Di sicuro l’esperimento culturale della CCRU, pur avendo chiuso i battenti poco dopo essere nato, ci ha consegnato un materiale che sarebbe sciocco mettere da parte, e che merita attenzione per molte ragioni. Vanno prese sul serio le riflessioni sul presente e sul futuro della relazione degli uomini con le macchine, e quindi sulla relazione con il capitalismo e le forme che esso ha assunto, relazioni in cui la tecnologia stessa rappresenta e confluisce in una qualche nuova metafisica.
In un articolo del 1991, Il computer per il 21° secolo, Mark Weiser esordisce così: «le tecnologie più profonde sono quelle che scompaiono. Si intrecciano nel tessuto della vita quotidiana fino a quando non ne sono indistinguibili»; articolo che fa il paio con uno di dieci anni esatti più tardi in cui Mark Andressen sosteneva che il software si stava mangiando il mondo. Dalla teoria alla pratica il passo è breve. Eric Schmidt, a lungo presidente di Google, ha detto che presto Internet scomparirà: talmente tanto presente e ubiqua nella nostra esistenza, così disponibile, seducente e necessaria che la sentiremo fino in fondo parte di noi, così naturale da nascondersi, o da nasconderci il resto delle cose.
Quanti spunti che l’accelerazionismo ha colto in anticipo sui tempi, quante intuizioni allora fulminanti, imprevedibili, contraddittorie, anche grottesche se volete, che però non si fermavano a una lettura pigra della condizione umana nel 21° secolo. Sono passati poco meno di 30 anni e Land è andato in esilio in una città che sembra plasmata sull’estetica di Blade Runner e cioè Shanghai.
Il volume di Cancelli rappresenta una lampada da speleologi assai utile per scendere in quel mondo ipogeo e fare più luce. Anche perché l’accelerazionismo non è solo questo brodo culturale in cui si mescolano tanti di quegli ingredienti e temi che spesso si finisce per pensare che tutto sia solo… un gran casino. Non è così.
La CCRU e le analisi di Land e Plant hanno generato epigoni.
Sono nate, come accade ai filoni di pensiero fecondi, discendenze di destra, di sinistra, un accelerazionismo incondizionato che si sfila dalla politica.
Non ce ne siamo accorti, ma in tutto il lavorio culturale, non solo di propaganda, che sta dietro all’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, c’era anche una dose di teorie accelerazioniste. Nella sintesi, per niente mirabile, tra tutte le galassie dell’Alt-right, del politicamente scorretto, di quel mondo – un tempo ipogeo oggi di superficie – in cui galleggiano nerd, fascisti, suprematisti bianchi che Angela Nagle racconta così bene in Contro la vostra realtà, ha trovato spazio anche l’accelerazionismo di destra.
L’ILLUMINISMO OSCURO
Grazie all’incontro tra Land e Mencius Moldbug, uno dei tanti pessimi maestri dell’Alt-right USA, sorge l’ennesima costola del movimento neoreazionario che culmina in un vero e proprio manifesto politico: The Dark Enlightment, l’Illuminismo oscuro, una specie di sintesi estrema di teorie accelerazioniste, conservatorismo ultraliberale e techno-utopismo radicale di derivazione Burning Man. D’altronde è lo stesso Land – in un’intervista – a citare un personaggio di cui abbiamo già parlato in questo blog, Peter Thiel, tra i primi finanziatori sia di Facebook che di Trump, amico dello stesso Mark Zuckerberg, creatore di PayPal, il quale perentoriamente afferma: «non credo più che la libertà e la democrazia siano compatibili».
Per l’Illuminismo oscuro la libertà estrema rappresenta il paradigma dal quale partire, la Silicon Valley incarna l’unico modello di governo funzionante, di fronte all’inefficiente catastrofe delle democrazie, e un approccio manageriale, ingegneristico, ai fatti sociali ed economici costituisce la sola prassi possibile. Il pianeta va ri-assemblato secondo il modello delle città stato orientali e delle zaibatsu giapponesi (giganteschi conglomerati industriali e finanziari), e «ogni singola giurisdizione è direttamente dominata dal CEO di una corporazione sovrana (le sovcorp), detentrice di ogni potere». Le stesse sovcorp vengono controllate da uno o più sponsor, «un secondo livello di corporazioni. I cittadini – o meglio i subscriber – delle sovcorp contribuiscono alla gestione del territorio in qualità di impiegati, offrendo suggerimenti o segnalando problemi ai CEO, rigorosamente via e-mail».
Insomma basta togliere di mezzo la politica, il politicamente corretto – vera ossessione dell’Alt-right americana -, basta eliminare gli orpelli ingombranti della democrazia per arrivare a una gestione finalmente efficiente, che non si preoccupa di imbrigliare il caos, anzi, lo libera con tutto il suo potenziale di distruzione creatrice. La strategia del massimo caos possibile era proprio la visione che animava Steve Bannon, a lungo ideologo di Trump. Da un’aula oscura di un ateneo di provincia nelle Midlands occidentali inglesi alla Casa Bianca, il percorso appare tortuoso e tuttavia non impossibile; viene voglia di approfondire ulteriormente la parabola di questa corrente filosofica.
Il volume di Tiziano Cancelli ha il pregio importante di avvicinare il lettore a questo mondo ipogeo e di lasciarlo con curiosità inappagate e molti itinerari da percorrere, caratteristica questa dei libri di valore.
La vitalità delle teorie nate dalla CCRU, l’esuberanza di fronte a sentieri interpretativi inconsueti, spinge a chiedere che l’analisi su questi filoni teorici prosegua. Per la verità l’interesse non è mancato fino a oggi (e semmai è in debito proprio chi scrive qui), basta sfogliare articoli meritori, di qualche anno fa, per rendersene conto. How to accelerate possiede un’ottima bibliografia ed è il sigillo di chiusura di un testo che consiglio di leggere.
Post Scriptum
Chiudiamo da dove abbiamo cominciato, e con dispiacere, ricordando la scomparsa di riviste digitali di pregio, come prismomag, esperimenti che hanno raccontato, non solo l’accelerazionismo, ma il bizzarro, e talvolta oscuro, presente, ipogeo ed epigeo, che abitiamo, e lo hanno fatto da inedite prospettive (le facce inusuali e multiple del prisma), e poi – purtroppo – hanno dovuto interrompere le pubblicazioni. Oggi manca quella vitalità, quella curiosità, una certa colta eterodossia, mancano approcci lontani dalle liturgie. Ritengo che esperienze come prismomag siano più che mai necessarie, serve tornare a percorrere strade inconsuete per cercare di unire puntini culturali e interpretativi, itinerari che altrimenti rimangono nei mondi ipogei. E se non si trovano bravi speleologi sono dolori.
Per non essere pigri nelle proposte di lettura e visione, utili ad addentrarsi in questi sentieri tortuosi (ma molto appassionanti), vi suggerisco quindi:
Tiziano Cancelli, How to accelerate, Tlon
Contro la vostra realtà, Angela Nagle, Luiss University Press
La guerra dei Meme – Fenomenologia di uno scherzo infinito, Alessandro Lolli, Effequ
La stella nera, Gary Lachman, Tlon
Essere una macchina, Mark O’Connell, Adelphi
Meltdown, prismomag
Un articolo di Umberto Eco su Ioan Culianu che sembra non avere nulla a che fare con questi temi e invece…
Blade Runner
Terminator 2