UniCredit è stanca di Facebook, o più pragmaticamente è stanca di pagare Facebook. O ancor più prosaicamente ha capito che la relazione con il cliente è faticosa, dispendiosa e, dentro quello spazio, davvero difficile da gestire. Anche perché la cosiddetta conversazione è un pendolo che oscilla in continuazione tra il servizio al cliente e la battaglia per la reputazione. Le persone chiedono informazioni sui servizi, pretendono spiegazioni sui disservizi, si lamentano delle inefficienze e solo qualche volta esprimono apprezzamento. Una pagina Facebook, per quanti commenti tu possa nascondere, risulta una costruzione molto più trasparente, visibile e ingombrante di un call center.
La verità, banale e spesso dimenticata, è che le pagine delle aziende nel social network sono case costruite su un terreno che non è di loro proprietà. Il terreno era, è, e sarà sempre di Mark Zuckerberg. Il quale dopo aver lasciato che i brand occupassero con facilità spazi e raccogliessero seguaci ha cominciato a chiudere i cancelli, pretendendo soldi in cambio di visibilità. Com’è naturale che sia. Oggi parlare con la propria fan base costa un sacco di soldi, decine di migliaia di euro al mese per chi ha mezzo milione di seguaci come nel caso della banca italiana.
Nel post in cui UniCredit annuncia di lasciare Facebook, Messenger e Instagram, l’istituto di credito afferma che dal 1° giugno valorizzerà «i canali digitali proprietari per garantire un dialogo riservato e di alta qualità». Una specie di sovranismo digitale aziendale. La banca vuole essere padrona in casa propria, e vuole parlare con i clienti nel rispetto della privacy e con un tono accettabile, lontano dall’Era della rabbia per dirla con Pankaj Mishra. Uno schiaffone a Zuckerberg che possiede le tre piattaforme e che ultimamente afferma, a ogni piè sospinto, di voler puntare sempre di più sulla riservatezza.
Insomma una delle prime cinque banche europee ha deciso di salutare, ringraziare e dire: grazie, ma basta così. Si può supporre che UniCredit allestirà una propria piattaforma dove costruire relazioni con clienti e potenziali clienti. (Immaginiamo che dalle parti di Salesforce staranno già buttando giù preventivi e presentazioni).
Non possiamo dire oggi se la scelta di UniCredit sia giusta, profittevole, lungimirante oppure no. In fondo stare dentro Facebook, stare nei social network, significa stare nel posto dove stanno i clienti. E soprattutto i potenziali clienti. Di sicuro è una mossa in controtendenza.
Un attore del capitalismo globalizzato, una banca multinazionale con filiali sparse in 18 paesi, esce dallo spazio proprietario di uno dei simboli del capitalismo globalizzato e digitale, a sua volta presente in quasi tutto il mondo. La forza di una banca così grande risiede nel fatto che, attraverso questa sua scelta, ci ricorda che Facebook non è il web e tantomeno Internet. Che si può fare comunicazione e si possono costruire relazioni con le persone, anche fuori dal social network più popolato del mondo. Se sia un azzardo è presto per dirlo.
Provando a interpretare le scarne parole del post della banca, sembra che la scelta sia in primo luogo economica. Farsi leggere, ascoltare, decidere di conversare con una fan-base di mezzo milione di persone costa tanti soldi. Soprattutto par di capire che la banca è stanca di pagare una gabella a Zuckerberg per tutte e tre le piattaforme. Soldi che possono essere validamente investiti in un software proprietario per la comunicazione e la gestione delle relazioni con i clienti.
Oltre questo ci sono ragioni che potremmo definire industriali, prima di tutto di sicurezza delle informazioni che banca e utenti si scambiano quando qualcuno chiede informazioni – più che riservate – sui propri conti, sul risparmio e gli investimenti, sulla gestione del proprio patrimonio. Per quanto possa parere assurdo, non facciamo fatica a pensare a quante persone si sentano tranquille a rivelare informazioni riservate nella relazione con una banca, attraverso Messenger; informazioni che corrono su una piattaforma di proprietà di un soggetto terzo che non è la banca. Il quale ha dimostrato, più di una volta, una certa leggerezza nel trattare la privacy degli utenti (quindi anche delle pagine, visto che servono profili personali per gestire pagine aziendali); basti pensare agli elenchi di password conservati in un file word.
Infine, riteniamo che UniCredit pensi che Facebook e compagnia non siano solo social network, ma qualcosa di più ingombrante. Tanto ingombrante da scorgere nel profilo dell’azienda l’ombra di un concorrente agguerrito e pericoloso.
Zuckerberg non ha mai nascosto le sue ambizioni finanziarie, a breve dovrebbe diventare operativa la possibilità di effettuare transazioni dentro Messenger con una piattaforma che ricorda PayPal. Molti simile a quello che già accade nel super social network cinese, WeChat. Ed è notizia recente che Zuckerberg, sempre lui, avrebbe intenzione di sviluppare e realizzare una criptovaluta tutta sua.
Oggi la banca ha deciso di uscire dal regno di Mark. Sarà interessante leggere le conseguenze di questa scelta, vedere se avrà un seguito. Dopotutto UniCredit non è la prima, qualche tempo fa filiale britannica di Lush aveva detto che era arrivato il tempo di smettere di parlare, perché è venuto il tempo di ascoltare. Slogan furbo che però, come per UniCredit, coglie lo spirito del tempo. Di un tempo estremamente volatile. Di un tempo in cui i social network incarnano molti difetti e poche virtù. Non tutti possono permettersi il lusso di fare la stessa scelta. Ma qualcuno imiterà di certo la grande banca e annuncerà che basta così, non se ne può delle discussioni urlate nei social network, che è ora di tornare al passato.
Di sicuro, a un anno dalle notizie su Cambridge Analytica, possiamo affermare che lo scandalo ha liberato energie critiche non solo nell’opinione pubblica, nella stampa ma anche in diversi settori produttivi, a partire dagli attori più importanti.