Quanto successo ieri a Washington era prevedibile. Diversi analisti, oggi, partono da questo assunto per commentare i fatti del Campidoglio e per porre alcuni interrogativi.
Perché la polizia non ha messo in piedi misure adeguate?
Perché Facebook e Twitter non hanno impedito che circolasse materiale che chiamava all’insurrezione?
Alla domanda sulla polizia non so rispondere.
Proviamo a rispondere a quelle sul ruolo dei social network.
Però prima le notizie: Twitter e Facebook hanno intrapreso azioni punitive sugli account di Trump. Alcune mai viste in precedenza.
Facebook, dopo aver riscontrato violazioni alle sue norme, ha affidato una condanna durissima, a una nota del suo fondatore. Blocco della pagina di Trump a tempo indeterminato, e per almeno due settimane, tanto su Facebook quanto su Instagram.
«Consentire al Presidente – ha scritto Zuckerberg – di continuare a utilizzare il nostro servizio, durante questo periodo, è un rischio semplicemente troppo grande».
Twitter ha detto che sospenderà l’account di Trump per 12 ore, e se le cose non cambieranno, e comunque The Donald rischia la cancellazione definitiva del suo profilo da 90 milioni di seguaci.
Entrambe le piattaforme hanno cancellato il video con cui ieri Trump si è rivolto ai manifestanti, chiedendo loro di tornare a casa, mentre continuava a dire che le elezioni erano truccate.
Sul profilo Twitter di Trump, si vedono i tweet cancellati, quello di supporto alla polizia e un video di un network di destra – RSBN TV- che incita alla manifestazione per «salvare l’America».
Sulla pagina Facebook del presidente compare lo stesso video.
Insomma non è difficile capire come la pensava, e la pensa, Trump, se uno intende oggi affidarsi ai suoi social network.
Ancora una volta continuiamo a guardare a eventi come questo osservando ciò che esce dalle piattaforme, l’output, dimenticando il processo che conduce quell’output a un pubblico potenziale di miliardi di persone. Le manipolazioni elettorali, l’infodemia e i post che dicono che il Covid non esiste, i no vax che spiegano che dentro le siringhe del vaccino galleggia l’acqua, infine i post di Trump e dei suoi seguaci che dipingono elezioni truccate e chiamano alla mobilitazione, la cancellazione dei tweet e dei post del presidente, ecco tutto questo significa concentrarsi sull’output.
Il passaggio necessario è tralasciare gli output, anche se sono sensazionali, e pensare alla macchina.
Insomma, siamo sicuri che il problema siano ciò che le persone scrivono?
Come in passato ciascuno può crearsi crea una propria verità (l’output), una propria verità politica, anche cospirativa, ma oggi – ecco la novità -, grazie alla piattaforma, può proporla a un pubblico vasto a piacere, laddove fino a ieri si limitava a parlarne al bar.
Il problema dei social network non è (soltanto) l’output, e cioè quello che esce; il problema dei social network è quello che sta dentro, la macchina e il suo motore: il famoso algoritmo. E cioè un sistema, a portata di chiunque lo voglia, che permette alle verità alternative di ottenere un pubblico grande a piacere. Oppure che permette di ricavare da un pubblico, che conosco davvero bene grazie alla stessa macchina, un gruppetto disposto a tutto, anche ad andare sotto il Congresso con l’obiettivo di bloccare un processo costituzionale. Un megafono di una precisione inaudita che rilancia qualunque parola d’ordine. Noi ci stiamo ancora concentrando sulle parole che escono dal megafono, lo sforzo che dobbiamo fare è concentrarci sugli ingranaggi del megafono.
Anche perché non esiste un sistema per evitare che le parole a noi sgradite, quelle sbagliate, escano dal megafono. Il megafono funziona con le parole che ci piacciono e quelle che non ci piacciono, con quelle giuste e quelle sbagliate.
Non esiste, insomma, un metodo tecnologico che consenta al megafono di separare il grano dal loglio; le sciocchezze dalle cose serie. Per vagliare gli argomenti.
Il problema è l’esistenza stessa di Facebook e Twitter.
A meno che non si pensi che, chiudendo il profilo di Trump, si chiuda anche il profilo di quanti a Trump hanno dato il voto e di quanti ieri erano sotto al Congresso. Togliere la voce a Trump su Facebook e Instagram non è una soluzione. Ci saranno sempre altri piccoli Trump pronti a diffondere le sue idee, ci saranno altri social network – penso a Parler – che verranno utilizzati alla bisogna.
Finché esisteranno i social network dovremo fare i conti con un fenomeno nuovo nella storia dell’umanità: la diffusione rapida, immediata e granulare di verità alternative, di falsità, di verità privatizzate (Maurizio Ferraris).
L’output è la conseguenza della semplice esistenza in vita della piattaforma e dei suoi meccanismi di funzionamento.
La soluzione non è nemmeno eliminare dalla faccia della terra i social network. Esistono da anni, hanno modificato il modo con cui gli esseri umani si relazionano tra loro, sono uno strumento di intrattenimento, di business, di comunicazione e anche di disinformazione. Sono il portato di una delle più grandi rivoluzioni tecnologiche nella storia dell’umanità. Nessuno vuole davvero cancellarli.
In definitiva non esiste una soluzione per situazioni come quelle che abbiamo visto ieri: dobbiamo imparare a convivere con queste cose. Dobbiamo prepararci ad affrontarle quando arrivano, perché arriveranno di nuovo. Perché i social network sono utilizzati da miliardi di persone al mondo.
La questione allora non è, come titola oggi un giornale, «utilizzare i social contro la democrazia», ma accettare che i social network vengano abitati e utilizzati con molteplici fini.
Non è un caso che Zuckerberg abbia sospeso gli account di Trump. Egli intende accreditare questa lettura: il presidente ha male utilizzato il potere che la piattaforma gli ha messo a disposizione. La responsabilità è tutta del presidente.
Ma è davvero possibile immaginare i social network come un luogo senza peccato originale?
Uno spazio che le persone utilizzeranno per fini benevoli, a dispetto di quanto sta accadendo da quando sono nati?
Possono, ancora e realisticamente, i social network rendere il mondo un posto più aperto e connesso?
Difficile che Mark Zuckerberg lo ritenga possibile. Il ragazzo è troppo intelligente per non sapere che, se domani dovesse nascere politicamente un altro Trump, avremmo gli stessi identici problemi. Ecco perché tenta di scrollarsi di dosso la brutta sensazione di uno che ha offerto, col suo servizio, un megafono a chi ieri era davanti al Congresso.
I megafoni non sono imbuti anche se li ricordano: i megafoni servono a fare il lavoro dei megafoni. E, oggi, attribuire una grande responsabilità a Trump non porta a sollevarsi dalla propria.
Torniamo infine alla domanda iniziale.
Facebook e Twitter non erano impreparati. Probabilmente sono stati i soggetti più consapevoli, più ancora della polizia, di quanto stava accadendo: le conversazioni e le decisioni di andare al Congresso prendevano forma anche dentro casa loro. Le persone dove pensate si siano messe d’accordo? Su Whatsapp, su Facebook, su Twitter, su Messenger.
Eppure, qualsiasi azione i social network avessero messo in atto sarebbe risultata parzialmente efficace, per tutti le ragioni che abbiamo elencato fin qui.
Trump avrebbe parlato da una qualsiasi tv di destra, avrebbe detto esattamente le stesse cose sulle elezioni rubate, e la sua voce sarebbe rimbalzata nei gruppi chiusi di Whatsapp e Facebook sommandosi ad altri discorsi e ad altre voci, avrebbe risuonato nelle chat, nei blog, nei profili di persone anonime su Twitter o di predicatori di destra su Parler, e via così. La rete e il web nascono, per fortuna, sulla pluralità delle connessioni, degli ambienti e dei canali di comunicazione, ciascuno potrà sempre trovare il proprio.
Oggi in questa analisi tralascio volutamente ogni valutazione politica, ma appare chiaro che quanto ho preso in esame è solo una parte di un problema complesso.
Trump occupa, da anni, uno spazio politico che nessuno ha occupato, e tutto ciò esula dalle responsabilità dei social network.