Il taylorismo nasce alla fine del secolo scorso come approccio scientifico all’organizzazione del lavoro. Si tratta di una pratica ideata da Frederik Winslow Taylor nelle acciaierie della Bethlehem Steel, in Pennsylvania. Consisteva, come riporta Paul Mason in Postcapitalismo, «nell’incaricare un manager di controllare da vicino i periodi di riposo dell’operaio, e perfino la velocità con cui camminava. Taylor scrisse che il tipo di uomo idoneo per un lavoro simile era “così sciocco e paziente da ricordare come forma mentis, più di ogni altro tipo di persona, la specie bovina”». Un sistema che progettava e misurava tempi e modi della produzione. Per tutto il ‘900 il taylorismo ha spianato la strada alla sorveglianza dei lavoratori nelle fabbriche per aumentare la produttività, per inchiodarli alla catena di montaggio.
Dopo più di un secolo, la mutazione portata dal capitalismo digitale ha consentito alle aziende un salto di qualità nel controllo dei processi di produzione. E Amazon deve parte del suo successo alla perfetta integrazione tra umani e robot, e al controllo serrato del lavoro dei primi, più che dei secondi, i quali onestamente non pongono particolari problemi di sindacalizzazione e rivendicazione. Il successo di Amazon poggia su un’integrazione che si attua nel cuore degli stabilimenti che potremmo rappresentare come organismi cyborg, in cui umano e non umano si integrano perentoriamente, combinando virtù e difetti degli uni negli altri. Molte inchieste giornalistiche hanno raccontato cosa sia il lavoro nei grandi stabilimenti di logistica avanzata che l’azienda fondata da Jeff Bezos ha disseminato in giro per il mondo; luoghi in cui vige il più assoluto «darwinismo intenzionale», nelle parole di un ex direttore del personale di Amazon.
La qualità prima del capitalismo della sorveglianza, come lo definisce Soshana Zuboff, è che esso è – prima di ogni altra cosa – capitalismo. Che però utilizza nuovi mezzi per fare quel che ha sempre fatto.
L’elemento di novità risiede nella scala geopolitica ed economica di azione, nell’utilizzo della tecnologia e nel racconto che ha elevato e nobilitato l’altissima missione nel mondo di queste aziende, separandola dagli spiriti animali del vecchio e tradizionale capitalismo. Amazon incarna alla perfezione questo sistema e le sue tre caratteristiche di fondo.
Fino a non molto tempo fa, Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, accompagnava al lavoro la prima moglie, MacKenzie Scott, in macchina, su una vecchia Honda Accord del 1996. Tutto questo accadeva mentre la sua azienda brevettava un braccialetto che monitora tutta l’attività dei dipendenti, analizza velocità ed efficienza, e vibra in caso di errore. Un passo deciso verso il controllo totale, in una direzione che Frederik Winslow Taylor non avrebbe potuto nemmeno sognare. Due fatti che rappresentano la sintesi di un’elegia senza crepe che alterna celebrazione della morigeratezza e l’utilizzo più disumano della tecnologia. Ma il proprietario di Amazon nasconde la polvere della ferocia sotto il tappeto della correttezza politica e della narrazione del suo impegno. E tutti ci siamo lasciati sedurre dal fatto che Bezos abbia fatto scrivere sotto la testata del suo Washington Post che la Democrazia muore nell’oscurità (Democracy Dies in Darkness); un luminoso monito contro il tiranno che abita la Casa Bianca.
In questo senso conviene ricordare che tra i 14 principi aziendali di leadership promossi da Amazon, sommamente incongrua spicca la frugalità, intesa come ambizione al risparmio assoluto, cui aggiungere la propensione all’azione e l’idea che un manager deve avere spesso ragione. (Sono convinto che il limite strutturale di molte analisi sul capitalismo digitale, soprattutto italiane, consista nell’assenza di approccio filologico al tema: si guarda sempre ai risultati, agli effetti sociali e sugli individui – importanti per carità – ma pochissimo all’infrastruttura culturale che sorregge tutto il processo, alle parole di chi pensa e realizza il processo).
Questa lunga premessa va conclusa con una prima notizia: Amazon – con la pandemia – è diventata il secondo datore di lavoro privato più importante degli Stati Uniti, dopo Walmart, con 1.4 milioni di dipendenti. E il sindacato non è presente in nessuno degli oltre 100 stabilimenti che stanno sul suolo americano.
La seconda notizia l’ha data il sito Recode che ha rivelato l’esistenza di un appunto riservato che proietta le attività di controllo aziendale a livelli mai visti. Questo promemoria descrive un nuovo software, ancora in fase di sviluppo e del valore di alcuni milioni di dollari, chiamato geoSPatial Operating Console, o SPOC, che ha come obiettivo primo quello di scovare nuove minacce per l’azienda. E tra le queste include la presenza di sindacati in tutte le regioni del mondo in cui Amazon è presente. Praticamente in ogni continente, tranne l’Africa. Più che un software, in effetti, SPOC si configura come una vera e propria piattaforma di analisi e controllo di molti fattori considerati minacce dall’azienda: attività sindacali, incidenti sul lavoro, straordinari obbligatori ma anche criminalità e condizioni meteorologiche. Nella testa dei progettisti il sistema rende visivamente, e su scala globale, tutte queste minacce in modo che possano essere subito identificate, analizzate e infine contrastate.
Insomma la difesa degli interessi dei lavoratori viene considerata alla stregua di un tifone o come un incendio, un pericolo da prevedere ed evitare. SPOC metterà a disposizione del management di Amazon anche una Mappa delle relazioni sindacali, su scala globale, utile a valutare la forza finanziaria dei sindacati e la loro capacità di rivendicazione. Una sorta di atlante globale dei soggetti che possono aprire vertenze, avviare scioperi e manifestazioni, con maggiore o minore probabilità di successo.
Questa impostazione non dovrebbe provocare turbamenti, in chi conosce quella cinica e fideistica attribuzione alla tecnologia di virtù salvifiche che agita, da sempre, la Silicon Valley. Il loro modo di pensare e il loro modo di agire discendono da questa profondissima convinzione. Tutto viene inscatolato in un sistema che datizza (perdonatemi) ogni comportamento, ogni pensiero e desiderio, ogni fattore di rischio, anche politico o sindacale, e affida a un algoritmo la rappresentazione e la risoluzione dei problemi. Dopotutto qualsiasi decisione umana potrebbe essere assimilata a un algoritmo, fondato su un set di dati che è costituito dalla nostra esistenza, dal complesso dei nostri ricordi e delle nostre esperienze. La Silicon Valley in genere, e Amazon nella fattispecie, semplicemente rovescia questo assunto ed esternalizza una porzione rilevante di numerosi processi decisionali, affidandoli alle macchine e incrementando così a dismisura la componente di raccolta dei dati, le funzioni di analisi e controllo. La mente umana appare agli occhi dei titani digitali così grossolana, fallibile, limitata, e troppe variabili potrebbero sfuggirle che va sostituita, superata.
La FIAT di Valletta aveva capireparto che tenevano in mano il cronometro e controllavano tempi, movimenti e parole degli operai. Adesso disponiamo di un sistema tecnologico e un braccialetto che monitorano tutto questo, ma anche tutto il resto. Su scala globale, locale, iper locale: per ogni singolo e immane stabilimento, per ogni sigla sindacale, per ogni singolo turno, per ogni singolo lavoratore e per ogni movimento che egli compie all’interno dell’ambiente di lavoro.
Chi fa sintesi di tutto questo? Di questa massa di dati? Pochi eletti e umani. Bezos ovviamente, ma egli deve far fronte a differenti problemi planetari: mandare avanti l’economia del mondo mentre infuria la pandemia, devastando il piccolo commercio locale e non solo; egli sta inoltre spostando le attività di centinaia di migliaia di aziende, in tutto il mondo, nei suoi sistemi di cloud, poiché milioni di persone hanno cominciato tutte insieme a lavorare da remoto; deve poi capire quale presidente degli Stati Uniti – tra i due contendenti – sarà più pericoloso per la sua compagnia; e infine, certo, deve anche individuare quale sindacato rappresenti un problema, ma per fortuna è stato creato SPOC.
Pure in questo caso occorre tornare alle parole, per capire come farà Bezos di fronte al rischio sindacalizzazione dei suoi stabilimenti. Le parole in questo caso sono quelle di un annuncio di lavoro, poi ritirato ma ancora consultabile in rete, per un analista di intelligence che lavora alla comprensione delle minacce sostenuto in questo compito da una tecnologia realizzata ad hoc.
Il candidato, così prevedevano i requisiti, dovrà lavorare a un sistema di ricerca di stringhe che serve a monitorare i rischi futuri; tutto questo può riguardare argomenti come sindacato, attivisti, leader politici ostili. L’analista deve aiutare a colmare le lacune di conoscenza da parte dell’azienda, e prevedere anche con il coinvolgimento di esperti su temi rilevanti per Amazon, inclusi gruppi che diffondono odio, iniziative politiche, questioni geopolitiche, terrorismo, forze dell’ordine e sindacati. Mai come in questo caso l’utilizzo della parola intelligence ha una sua pregnanza. Non è questa la sede per raccontare perché Amazon abbia problemi con il sindacato, tuttavia credo sia sufficiente cercare qualche reportage giornalistico per capire quanto le performance dei dipendenti siano spinte al limite.
Ciò che però preme sottolineare, in chiusura, è che un simile approccio diventerà prassi per molte altre aziende. E questo non deve e non può stupire. Lo sfruttamento di enormi masse di dati per identificare rischi e minacce esiste da tempo. Per dire, la NSA (National security agency) statunitense utilizza questo metodo, con alterne fortune, per identificare minacce terroristiche.
L’evoluzione avviata oggi da Amazon, che è leader globale nei servizi di cloud, sta tutta nel campo di applicazione: le relazioni industriali e sindacali, le relazioni istituzionali, le azioni e le pratiche di lobby. La novità dell’utilizzo dei dati per affrontare questo genere di compiti risiede nel fatto che fino a ieri tali mansioni erano affidate esclusivamente all’essere umano, alla sua capacità di stringere o negare relazioni, di intimidire o blandire, di corrompere o stringere alleanze, di negoziare, avanzare proposte, respingere in definitiva di stare dentro a una situazione conflittuale che poteva protrarsi per lungo tempo o risolversi. Adesso la macchina, il software, diventa strumento indispensabile che snatura il modo in cui si strutturano relazioni e conflitti nei luoghi di lavoro. Questo comportamento si somma ai molteplici sistemi di controllo e monitoraggio che il lavoro da remoto porta con sé, nella sua rapidissima diffusione planetaria (tra l’altro alcuni di questi sistemi non hanno nulla di scandaloso e sono del tutto legittimi).
Il tema è sempre lo stesso: non solo la macchina diventa il diaframma attraverso il quale osserviamo il mondo, ma questo diaframma deforma e orienta il nostro sguardo e dunque la nostra azione.
Ecco perché è insufficiente la definizione capitalismo della sorveglianza. Perché essa guarda agli effetti prima che al sistema e al pensiero che vi è alla base. L’approccio filologico alle questioni digitali rintraccia le fondamenta di questo modo di pensare, in alcuni documenti in cui le grandi compagnie della Silicon Valley sono costrette a una forma di impavida ed esibita sincerità. Sto parlando delle lettere agli azionisti che servono a persuadere investitori, e mercato azionario, della bontà del proprio operato presente, e soprattutto futuro. Per quanto esistano gli sbruffoni, Wall Street – di norma – non concepisce eccessi promozionali. Il capitalismo, nella sua componente finanziaria, appare molto rigoroso e premuroso quando di mezzo ci sono gli affetti più cari, e cioè il denaro. In una delle prime lettere agli azionisti, nel 1997, Bezos scriveva: «continueremo a concentrarci sull’assunzione e sul mantenimento di dipendenti versatili e di talento (…), sappiamo che il nostro successo sarà in gran parte influenzato dalla nostra capacità di attrarre e mantenere una base di dipendenti motivati, ognuno dei quali deve pensare come, e quindi deve essere effettivamente, un proprietario». E non sono i proprietari ma i dipendenti ad avere bisogno del sindacato. Ma non tutti la pensano così, ecco perché serve SPOC.