Troppo interconnessi. Una nuova anatomia del potere digitale.

Uomini in giacca e cravatta, dallo sguardo disorientato e il sorriso tirato, escono da un grattacielo di New York, tengono uno scatolone in mano. Fotografi e operatori televisivi da tutto il mondo li circondano. Non è un romanzo di Don De Lillo: l’imbarazzo nei volti non ha nulla di poetico. È il 15 settembre 2008 e questa scena fissa per sempre l’inizio della grande crisi economica. Gli impiegati della banca d’affari Lehman Brothers abbandonano i propri uffici, dopo che l’azienda in cui lavoravano è saltata per aria: la più grande bancarotta della storia degli Stati Uniti. Tra finanza criminale e finanza spazzatura, con il capitalismo che stava per implodere o rigenerarsi (ancora non lo sapevamo), quella banca troppo grande e troppo interconnessa per fallire era venuta giù. La prima tessera di un domino planetario che stava portando il mondo intero in una enorme e profonda recessione. 

Adesso, legittimamente, nel pieno di una crisi economica ancor più devastante, abbiamo smesso di chiederci se una tale scena possa ripetersi in futuro e a quali condizioni. Se esistono insomma  altre banche, altre società tanto grandi quanto interconnesse con il sistema, che il loro fallimento – reputato impossibile – possa condurre l’economia sull’orlo del baratro. Abbiamo smesso di chiedercelo, ma forse dovremmo. Per quanto astratto e lontano tutto ciò possa sembrare, in realtà si situa molto vicino alle nostre vite quotidiane. E a ciò che oggi definiamo “potere”.

La crisi del 2008 è stata una crisi di sistema, nata nella finanza (guardate i film “Too big to fail”, “The big short”  e “Margin call” se non lo avete mai fatto), anzi cresciuta nella patologia della finanza, che poi ha esteso i suoi effetti al resto dell’economia. Una crisi in cui i livelli di interconnessione, cioè di relazione reciproca tra banche, tra banche e assicurazioni e tra banche e sistema delle imprese, hanno condotto il capitalismo a un passo dall’estinzione. Non è andata così; per un pelo. 

In quei giorni abbiamo appreso la nozione di rischio sistemico che si produce quando un rischio minimo, apparentemente isolato, cresce rapidamente e in maniera incontrollata in sistemi interconnessi, mettendoli in serio pericolo. Il fallimento di grandi banche, troppo grandi per fallire e troppo piene di titoli spazzatura, ha generato una specie di contagio, uno shock gigantesco, che ha trascinato con sé un settore produttivo dopo l’altro, dal trasporto aereo ai costruttori di automobili. Questo è quanto è accaduto nel 2008.

Nel 2016 un attacco informatico a Dyn, azienda che gestisce domini (gli indirizzi Internet) in tutto il mondo, aveva reso irraggiungibili molti siti tra i più noti e utilizzati: da Twitter a Netflix, da Amazon a Spotify. Per chi avesse voluto interpretarlo si trattava di un campanello d’allarme. 

Oggi la dinamica innescata dal virus SARS-CoV-2 non sembra lontana dallo scenario del 2008: il virus è un organismo minuscolo, cresciuto rapidamente e in maniera incontrollata, che sta producendo danni colossali a un sistema fortemente interconnesso come quello economico globale. Alcuni avrebbero dovuto prevederlo e non l’hanno fatto, esattamente come alcuni avrebbero dovuto vigilare sui titoli derivati e non lo fecero. 

Pur in assenza di previsioni specifiche, molti affermano che dovremo abituarci a convivere con altri virus, i quali produrranno altri shock e altre crisi. Non esiste tuttavia solo questo scenario, esistono altre minacce sistemiche che potrebbero portare a un collasso dell’economia. Rischi che si annidano al vertice della piramide del capitalismo globale, rischi incarnati da aziende fortemente interconnesse con il sistema nel suo complesso. 

Quali sono allora queste aziende? Perché sono così importanti? 

Un rapporto della Rand Corporation (che da sola meriterebbe svariati interventi in questo blog), uscito quest’anno, ha preso in esame i livelli di interconnessione tra aziende americane. Gli analisti hanno studiato i settori economici e hanno misurato quali e quante sono le reti che oggi collegano le aziende; e hanno poi cercato di capire quali effetti produrrebbe una crisi di una sola azienda molto interconnessa, e se da questa crisi il contagio possa estendersi al sistema nel suo complesso. 

Per fare un esempio: tutte le imprese contano sulle aziende che producono e distribuiscono energia, tutte le imprese hanno relazioni con le banche e quasi tutte con le assicurazioni; in questo senso la relazione di fornitura costituisce la connessione più evidente tra due aziende. Mentre si può cambiare con facilità  fornitore elettrico, nel caso uno subisca uno shock, vi sono servizi che non sono così agevolmente sostituibili. O altri che sono troppo grandi per essere sostituiti rapidamente. 

A distanza di 12 anni dal 2008 rimane da capire se, oltre alla banche che ovviamente sono parte essenziale del sistema economico, esistono altri tipi di aziende sulle quali conta il sistema nel suo complesso, o meglio dalle quali esso dipende. Rimane da capire se esistano nuove categorie di società che mostrano un livello di interconnessione tale da costituire un fulcro, un architrave, del sistema e allo stesso tempo un pericolo, un fattore di rischio generale. 

Dobbiamo chiederci, insomma, da dove arriverà il prossimo shock. Dalle banche o dalle assicurazioni? Oppure dallo spazio digitale? 

Una prima risposta a questa domanda sta nel rapporto. Rand Corp ha steso una classifica in cui nelle prime 20 posizioni non compaiono soltanto banche e assicurazioni, ma fornitori di altri servizi essenziali per un’economia interconnessa. Interconnesso è un termine che non descrive soltanto una relazioni d’affari tra clienti e fornitori, ma anche la connessione fisica alla rete. L’accesso a Internet e ai servizi che nello spazio digitale prendono corpo. 

Nelle prime 10 posizioni, per capirci, ci sono aziende tecnologiche come Amazon, Apple, Comcast e AT&T, queste ultime due sono grandi operatori di servizi telefonici e connessione dati; scorrendo oltre l’elenco si trova IBM, e Go Daddy che opera nel cloud e nella registrazione di domini internet. 
La società fondata da Jeff Bezos invece compare al primo posto di questa speciale classifica grazie all’influenza della sua controllata AWS, Amazon web services. Questa è il più grande servizio di cloud al mondo. AWS ha milioni di clienti in tutto il pianeta, i quali hanno deciso di spostare nei suoi server mostruose quantità di dati, proteggendosi dal rischio che il proprio data center subisca un attacco informatico, possa essere incendiato o allagato da un’inondazione. Leggere l’elenco di chi ha scelto di comprare i servizi di AWS fa impressione. Dentro c’è di tutto, le più grandi imprese private del mondo, società che pur avendo enormi centri di elaborazione dati preferiscono avere backup sicuri. Stiamo parlando di Netflix (che spende 18 milioni di dollari al mese per mettere i suoi film nel cloud di Amazon), BBC, la stessa Facebook, Mc Donald. Ma tra i clienti di AWS ci sono anche istituzioni nazionali e internazionali, agenzie di intelligence, i ministeri più importanti degli Stati Uniti grazie a un servizio apposito che si chiama GovCloud.  Come AWS compaiono altre compagnie che esauriscono il loro business nello spazio digitale e risultano essenziali per la vita dei propri clienti. È il caso di Workday, una società tecnologica che gestisce software finanziari, applicativi per buste paga e debiti studenteschi. Anch’essa lavora in cloud.

Alla luce di questi elementi il Wall Street Journal avverte: «la prossima crisi sistemica potrebbe iniziare non in una banca o in un altro istituto finanziario, ma nel cloud».

Tuttavia questo discorso potrebbe essere completamente capovolto: se un’azienda è tanto essenziale da costituire – essa da sola – un rischio per l’intero sistema, allora significa che questa compagnia detiene anche un potere smisurato

Fino a ieri pensavamo a un settore, quello finanziario o assicurativo, all’intero settore energetico, come potenziale epicentro di una grande crisi in grado di colpire l’intera economia; adesso siamo in grado di individuare un epicentro ancora più circoscritto. Una manciata di aziende (di persone!) concentra nelle proprie mani un potere immenso.

La vera sfida nell’analisi delle caratteristiche grandi compagnie tecnologiche californiane non sta nella comprensione del loro modello di business, ormai perfettamente studiato e compreso (basta leggere Soshana Zuboff), e purtroppo nemmeno nel loro dominio pieno e incontrollato sulla privacy degli utenti, ma nella definizione di una nuova natura del potere. Un potere che nella migliore delle ipotesi risulta paritario a quello degli Stati, e in certi ambiti lo sopravanza. Ad esempio spesso è senza rivali nello spazio digitale, luogo in cui oggi prendono corpo, non solo gli animal spirits dell’economia, ma anche la stessa democrazia.

Il rapporto della Rand Corporation può essere letto come un identikit dei rischi sistemici futuri, ma anche come una carta d’identità di un potere concentrato in poche aziende interconnesse con moltissime altre. Un’interconnessione che tuttavia non mostra tratti di reciprocità, ma in cui le techno-corporation esprimono una supremazia che deriva dalle caratteristiche dei servizi che offrono, in regime di monopolio o di oligopolio, e a partire da disponibilità tecnologiche e finanziarie impossibili da pareggiare per chiunque. 

Continuo a ritenere che la definizione di meta-nazione digitale sia più efficace di piattaforma e ovviamente di azienda

La sovranità nello spazio digitale si manifesta, giorno dopo giorno, con caratteristiche inedite. Ed evocare bovinamente il monopolio dell’esercizio della forza, da parte degli Stati nazionali, come elemento che caratterizza il potere con la maiuscola, appare quantomeno sciocco. La presenza di questi soggetti tanto potenti e interconnessi da non poter fallire (Too interconnected to fail, così titolava il Wall Street Journal) e addirittura da catalizzare il rischio per l’intero sistema economico (e dunque politico), ecco tutto questo richiede uno sforzo supplementare di analisi e di interpretazione. 
Lo stato di eccezione in cui decide chi è sovrano, può oggi manifestarsi in condizioni differenti. E cioè tanto all’interno all’interno di confini geografici quanto all’interno dello spazio digitale in cui molti Stati hanno poteri limitati, insufficienti. 
E questo stesso stato d’eccezione può a sua volta derivare da un attacco informatico su larga scala, da un mutamento dei loro interessi commerciali, da una diversa relazione economico-politica con gli Stati Uniti d’America o con la Cina, o con altri Stati (quello che Google sta facendo in Australia), da una chiusura dello spazio digitale, nella versione sovranista, da parte di qualche autocrate. La guerra non smette di essere un mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, ma al catalogo degli strumenti con cui esercitare influenza e dominio dobbiamo aggiungerne altri, dall’inedita morfologia. 


Ciò che mi preme affermare è che dobbiamo cominciare a immaginare definizioni del potere statuale e di quello delle meta-nazioni digitali che siano a geometria variabile. Nel Sacro Romano Impero esistevano titolari diversi di poteri differenti, il Papa e l’imperatore, i re e i duchi, che avevano giurisdizione su spazi, non solo geografici, differenti. Oggi le caratteristiche di uno Stato nazionale vanno correlate al potere effettivo che esso detiene nella propria area di influenza, e allo stesso modo va misurato il potere effettivo delle meta-nazioni digitali in relazione ai diversi Stati nazionali e allo spazio digitale. E tutto questo va messo correlato con la velocità di reazione degli Stati in occasione di una crisi, in occasione – in buona sostanza – del manifestarsi dello stato d’eccezione.

Se le caratteristiche del potere stanno così radicalmente mutando, dobbiamo prepararci una dialettica che vedrà scontrarsi il potere statale e degli organismi internazionali con quello detenuto dalle meta-nazioni digitali, per i prossimi decenni.

Articolo creato 92

Un commento su “Troppo interconnessi. Una nuova anatomia del potere digitale.

  1. Ciao Nicola,
    post interessantissimo, non consocevo la “rand”, puoi pubblicare il link della ricerca a cui fai riferimento?
    Grazie

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