Conoscere tutte le risposte
(10 luglio 2020)
Molte persone ancora lavorano da casa. Non tutti, ma il rischio che di nuovo si finisca in lockdown ha una sua concretezza. Negli Stati Uniti molti stanno vivendo la condizione che noi abbiamo vissuto per 3 mesi dal 9 marzo scorso. E quindi molte coppie abitano sotto lo stesso tetto 24/7 come mai prima era loro accaduto.
La giornalista del New York Times, Jessica Grose, ha scritto nella sua newsletter che qualche giorno fa si è rivolta al marito e gli ha detto: «perché sento che mi manchi anche se stiamo insieme 24 ore al giorno?» E ha aggiunto: «in 15 anni di relazione non abbiamo mai speso tanto tempo insieme, nello stesso spazio, come negli ultimi 4 mesi». Un tempo diradato, senza appuntamenti, senza uscite. Un tempo – aggiungo io – di iper connessione. Lo ricorderete.
➡️ Jessica Grose ha poi ricordato un esperimento condotto dalla rivista Slate nel 2008. Una coppia ha vissuto per una giornata intera legata da una corda di 4 metri e mezzo. Alla fine della giornata non avevano nulla da dirsi: «abbiamo vissuto lo stesso giorno. Non abbiamo domande l’uno per l’altra perché già conosciamo tutte le risposte. Non possiamo mentire, esagerare e distorcere gli avvenimenti della giornata soltanto per guadagnare un po’ di affetto». Ecco, vivere nello stesso spazio per lungo tempo è come sentirsi legati da una corda lunga 4 metri e mezzo. Questa sembra essere la tesi della Grose.
La domanda che mi faccio e che vi faccio è: quanto influisce il tempo online, il tempo speso nei social network rispetto allo stato d’animo espresso dalla Grose? Quanto pesa quel doomscrolling di cui abbiamo parlato qualche settimana fa?Secondo me molto.
Si tratta spesso – quasi sempre – di un tempo vuoto che tuttavia ha occupato (e occupa) per molte ore al giorno il tempo delle nostre vite.
Certo, quanto vediamo nei social potrebbe essere oggetto di riflessione, di dialogo, di condivisione con partner e amici. Eppure non è così. Per quanto la condivisione appaia come l’orizzonte ultimo della nostra presenza in un social network, in realtà intrattenersi lì dentro si configura come qualcosa di naturalmente ego-riferito. Nessuno guarda i social insieme (se non eccezionalmente). Io condivido, tu guardi, al limite reagisci, ri-condividi, ignori. Questa è la sequenza.
➡️ Si tratta di un tempo frustrante perché colmo di inattività, ci intratteniamo senza soddisfarci (il meccanismo delle ricompense variabili sta alla base dei modelli di business dei social). Esistono anche coppie che comunicano dentro lo spazio sociale digitale (scambiano reazioni e commenti, per essere precisi, il che non è proprio comunicare, non è niente, solo tic esibiti). Infine il tempo digitale è un tempo immemore. Sempre uguale a se stesso: raro ricordare contenuti che sopravvivono alla prima occhiata. Massimo 24 ore, come le storie di Instagram.
La sensazione di assenza che la giornalista esprime sembra essere figlia di una costante monotonia. Di una vicinanza che è mancanza di argomenti. Eppure i contenuti intorno a noi, nello spazio digitale, sembrano essere innumerevoli, vorticosi, infiniti; a ogni apertura dell’applicazione registriamo nuove foto, nuovi video, nuovi aggiornamenti di stato. La giornalista avrebbe potuto parlare al partner di tutte queste novità, avrebbe potuto condividerle con lui per alleviare il senso di mancanza o di vuota vicinanza. Non è andata così, non lo ha fatto: quando incontra il compagno in corridoio gli sembra un «collega d’ufficio», ha spiegato.
📌 Più i tempi di vita rallentano, più i confini delle nostre esistenze si chiudono, più le condizioni si fanno inedite (il lockdown), più la nostra vita nei social network sembra essere una fantasmagorica via di fuga. Colma di luci che incantano. Se fosse davvero così dovremmo raccontarci le meraviglie di questa evasione, e il racconto avrebbe alleviato il senso di mancanza di Jessica Grose, avrebbe colmato la solitudine più dolorosa e radicale, quella che si prova stando vicini a qualcuno.
Dopotutto questo è l’insegnamento di Sherazade: il racconto allunga e salva la vita, cancella il pericolo e addirittura genera l’amore. Ma non il racconto della vita di miliardi di persone in un social. Facebook e Instagram non sono Le mille e una notte (per fortuna aggiungo io). Purtroppo gli algoritmi dei social network non scaraventano l’utente nelle fauci dell’imprevisto. Non ci mettono di fronte all’inedito, all’inatteso.
La personalizzazione delle esperienze di navigazione regala lo scontato, il prevedibile: quello che ci aspettiamo di vedere. Una noia mortale. Anche se sono i nostri conoscenti, i nostri amici e le pagine cui abbiamo messo like. Eppure la meraviglia dell’inatteso è dietro l’angolo, il che però significa scontrarsi con le impostazioni predefinite di Facebook e Instagram, per non parlare di quelle di TikTok. Non è impossibile. Utilizzate la teoria dei sei gradi di separazione.
Scovate un profilo a caso, andate a zonzo per il pianeta, saltate di utente in utente, smettetela di sbirciare i profili dei vostri conoscenti, cercate dall’altra parte del mondo, cercate l’inatteso, guardate le foto di una città in cui non siete mai stati, e provate a immaginare la storia di chi ha scattato quella foto.
Sono certo che a fine serata fantasticare in questo modo colmi la mancanza dell’altro, del partner, molto più di fare second screen guardando una trasmissione tv o gli ultimi dati su Covid19.
Ovviamente, invece di scorrere le timeline c’è un modo ancora più potente: leggere a voce alta un romanzo, una storia. Va meno di moda. Ma Sherazade è così che vince la sua sfida.
Davvero Chrome è il migliore?
(13 luglio 2020)
Il 69% degli utenti che possiedono un portatile utilizza Chrome per navigare. Eppure sembra proprio che il browser di Google non sia il migliore strumento in circolazione. Sarà capitato a tutti di notare che in alcuni casi la ventola comincia a girare vorticosamente, e che la batteria si prosciuga più rapidamente a causa di un utilizzo eccessivo della memoria. Pare che il problema sia connesso al numero di schede aperte; sono queste ultime le responsabili, perché di memoria ne consumano molta.
Se fate una videochiamata con Meet, e in tutto il 2020 ne abbiamo fatte molte, il vostro computer soffre. Anche perché – a differenza di Zoom o Skype – non esiste un’applicazione dedicata.
Da Google dicono che stanno per rilasciare aggiornamenti importanti del browser e che presto le cose andranno meglio (vedremo).
Microsoft nel frattempo sta uscendo con un browser tutto nuovo dal nome Edge, sviluppato anche per chi possiede un Mac. L’azienda sostiene che sia stato pensato per vedere un sacco di film e serie tv su Netflix. Anche qui vedremo, ma comunque il mio consiglio è di provarlo.
Il Wall Street Journal ha fatto un test di durata su un portatile, ed è emerso che Edge ha battuto Chrome sia con un pc Windows che con un Mac. Nel caso del pc della Apple però il browser che funziona meglio, in termini di durata e quindi di risparmio della batteria, continua a essere Safari. Se, nonostante tutto, volete rimanere con Chrome potete andare dalla barra dei menu in alto, alla voce Finestra e da lì > Task Manager per controllare quanta RAM utilizzano le diverse schede che tenete aperte, anche quelle che non state consultando. Si apre una finestra e verificatte la prima voce, Footprint di memoria, rimarrete stupiti.
Allo stesso modo controllate, sempre dalla voce Finestra, da lì Estensioni e disattivate quelle che non utilizzate di frequente.
Neocolonialismo digitale?
(16 luglio 2020)
🔴 Qualche giorno fa con un tweet di Sundar Pichai e un post sul blog aziendale, Google ha annunciato un investimento di 950 milioni di euro in Italia per stimolare la trasformazione digitale del paese.
Google pensa a «una serie di momenti di formazione, strumenti gratuiti e partnership a supporto delle imprese e delle persone in cerca di opportunità lavorative», perché vuole «aiutare 700.000 persone e piccole e medie imprese a digitalizzarsi, con l’obiettivo di portare il numero complessivo a oltre 1 milione per la fine del 2021».
La seconda notizia.
Più o meno nelle stesse ore, con un evento online Sundar Pichai ha annunciato un piano di investimenti in India dello stesso tenore di quello italiano, ma dal volume maggiore. 10 miliardi di dollari nei prossimi 5-7 anni.
Dove stanno le differenze?
A parte il PIL indiano, direi nel numero di cittadini-utenti cui rivolgersi, la grandezza più importante per Google: 60 milioni contro 1.3 miliardi di persone.
L’India, a differenza della Cina, rappresenta un un terreno di conquista per le grandi techno-corporation americane, come lo è l’Africa. Facebook ha comprato un operatore di telefonia, pagandolo 5.7 miliardi. E Amazon ne ha scommessi altri 5 per competere con le rivali cinesi. Nel 2018 Walmart ha acquistato un’azienda di e-commerce per 16 miliardi.
E il primo atto del fondo per l’India messo in piedi da Google è stato l’acquisto – valore 4.5 miliardi di dollari – di una partecipazione in Jio. Una piattaforma che costruirà smartphone Android a basso costo.
Nelle parole di Pichai, che è nato proprio in India, l’investimento è «un riflesso della nostra fiducia nel futuro del paese e della sua economia digitale». Non solo la cultura e il paese di nascita, queste considerazioni poggiano in primo luogo su valutazioni demografiche.
L’ambizione di Google e delle altre aziende della Silicon Valley è conquistare “the next billion”, non soldi, ma il prossimo miliardo di utenti. Cittadini del mondo, per lo più di paesi in via di sviluppo, che non hanno ancora una connessione e presto l’avranno. In India metà della popolazione deve ancora affacciarsi su Internet. Per le techno-corporation la prospettiva più importante riguarda come si connetteranno queste persone. Le aziende tecnologiche ritengono che, a causa di difficoltà legate alla scarsa alfabetizzazione, il prossimo miliardo di nuovi utenti avrà bisogno di un web meno logo-centrico, con meno testo e più parole e immagini. Più comandi vocali e più ricerca attraverso le fotografie. Una rivoluzione rispetto al nostro modo di utilizzare la rete.
Anche perché si tratta di migliorare il modo in cui funzionano le intelligenze artificiali. Insegnando loro a riconoscere le fotografie e le sfumature del nostro linguaggio, soprattutto quello cosiddetto naturale, di tutti i giorni (più avanti capiremo che questo è un mestiere che si fa in India).
E a proposito di Internet non fondata sul testo, va sottolineato che nell’annuncio del fondo per l’India, Google ha specificato che le iniziative terranno conto dei diversi idiomi: hindi, tamil, punjabi o qualsiasi altra lingua. A questo si aggiunge l’applicazione Google Go, pensata per i telefoni più semplici, con meno memoria, applicazione che consente di ascoltare le pagine web anziché leggerle; che l’abbiano pensata per the next billion lo conferma il fatto che funziona anche con reti 2G.
Sempre a proposito di una Internet meno logo-centrica: una delle app indiane più popolari è Babajob, serve a trovare lavori come cameriere, autista, giardiniere, e ha una interfaccia molto semplice che funziona solo con comandi vocali.
Per soddisfare i milioni di utenti indiani che utilizzano le due ruote, Google Maps ha sviluppato una funzione che calcola i tragitti in moto e motorino. YouTube ha una versione indiana che consuma meno dati e serve un bacino di utenza sconfinato. Pichai nel suo intervento parla di 2500 youtuber da oltre un milioni di seguaci. Fate voi i conti.
Anche Facebook ha lanciato una sua versione light (la stessa che è possibile scaricare in molti paesi africani).
LinkedIn ha sviluppato la sua app in modo da poter funzionare sulle reti 2G.
Zuckerberg tra l’altro ha sponsorizzato una rete di wifi gratuiti in tutta la nazione. Insomma per le techno-corporation l’importante è esserci.
Più in generale l’India rappresenta un terreno fertile per le aziende digitali con circa 200 milioni di utenti Internet che parlano inglese, e con la presenza diffusa di lavoratori che potremmo definire contoterzisti o cottimisti dell’intelligenza artificiale. Ne raccontava la loro storia un articolo del New York Times dello scorso agosto. Si tratta di decine di migliaia di lavoratori che, per esempio, taggano video o etichettano immagini di ogni genere, per aiutare l’intelligenza artificiale ad apprendere. Ci sono molte aziende che svolgono questo tipo di compiti, un mercato da 1.2 miliardi di dollari, in crescita, e che rappresenta l’80% del tempo necessario a sviluppare un’intelligenza artificiale. Molte di queste persone lavorano proprio nelle tante piccole Silicon Valley indiane, in uffici meno scintillanti di quelli della Valley californiana.
Da punto di vista del dinamismo digitale e della creazione di start up in ambito tecnologico, l’India rappresenta poi un mercato molto più interessante del nostro. Pensiamo ai servizi di pagamento via smartphone, vero oggetto del desiderio delle aziende della Silicon Valley. Dal 2017 a oggi gli indiani hanno scaricato 180 milioni di volte Google Pay.
Per capirci, il mercato è tanto allettante che Whatsapp, dal 2018, sta cercando di lanciare una versione con funzioni di pagamento. Il volume di transazioni via smartphone, altro dato su cui riflettere, è inferiore rispetto alla Cina ma maggiore di quello degli Stati Uniti (Italia non pervenuta).
Altre considerazioni di natura politica.
🔴 Lo scontro che, negli ultimi mesi, ha contrapposto India e Cina, su questioni di confini contesi nell’Himalaya, ha riflessi anche nello spazio digitale. Com’è naturale che sia. Delhi ha bannato e quindi vietato l’utilizzo di 59 app cinesi, per ragioni di sicurezza informatica, tra queste anche TikTok (che era già stata scaricata qualcosa come 660 milioni di volte). Le aziende della California si infilano in uno spazio non più occupato dalla Cina. La dimensione commerciale è evidente. Ma osservandole meglio, queste campagne potrebbero essere lette come una specie di neocolonialismo digitale, di un esercizio di soft power non statale. L’attivismo di Google non ha semplicemente l’obiettivo di acquisire clienti-utenti, ma cittadini-utenti e imprese-clienti per la sua meta-nazione digitale. Una fascia di nuovi soggetti che accedono alla rete, che creano microimprese e sono riconoscenti a Google, perché il motore di ricerca e le sue applicazioni mutano alcune condizioni di base di accesso al mercato e alle informazioni. L’azienda di Mountain View vuole condurre per mano queste moltitudini nel suo ecosistema.
Per raggiungere questo ecosistema, non c’è solo il business.
Esiste un programma che si chiama Saathi, sviluppato insieme a Tata, che ha l’obiettivo di colmare il rural divide, facendo alfabetizzazione digitale per donne che abitano nelle zone rurali. Per restituire un’idea dei numeri: 28 milioni di donne in 289.000 villaggi hanno beneficiato dell’iniziativa.
Poi esiste Read along che è un programma internazionale di avviamento alla lettura, ma che in India ha particolare valore. Tanto che Pichai nel suo intervento ha raccontato di aver visto bambini imparare a leggere, grazie a questa applicazione di Google.
Infine il motore di ricerca ha sviluppato, grazie all’intelligenza artificiale, un sistema di previsione e allerta per le alluvioni attivo durante la stagione dei monsoni.
Si tratta di in un mix di investimenti e progetti solidali, leve di marketing, programmi di sviluppo, attenzione ai temi locali, stimoli al consenso intorno a un modo di essere digitali diverso da quello cinese. Come le altre meta-nazioni digitali, in virtù delle sue dimensioni e della sua importanza globale, Google fa politica, fa politica estera e anche commerciale, in linea con gli Stati Uniti ma conservando una propria autonomia, fa politica in misura differente a seconda del valore dell’interlocutore. E l’India pesa moltissimo.
Quella per l’Italia rappresenta una specie di chip per un vecchio paese di un Vecchio continente. Tanto che per parlarne è stato sufficiente un tweet.
Copiare TikTok
(16 luglio 2020)
📌 Una celebre citazione di Picasso recita: «i geni copiano, i mediocri imitano».
🔴 Mark Zuckerberg è un genio: ha inventato una cosa enorme, Facebook (forse copiandola dai gemelli Winklevoss, riguardatevi The social network), e poi ne ha comprate alcune, Whatsapp, Instagram e Giphy. E ogni volta ha copiato per stare al passo del mercato, per stare dietro ai concorrenti, per continuare a rimanere sul trono globale dell’universo dei social network. Adesso sta per rifarlo.
Che Instagram abbia copiato da Snapchat è evidente a tutti: le storie nascono da lì. Oggi il nuovo concorrente di Mark si chiama TikTok. Pare che, nel 2016, abbia provato a comprarlo quando ancora si chiamava Musical.ly ma senza successo.
Adesso dopo una fase di test su Facebook, alcune anticipazioni (Dylan Byers su tutti) raccontano che la nuova funzione di Instagram, dal nome Reels, dovrebbe uscire nelle prossime settimane. Nuova funzione che sembra proprio ispirata a TikTok.
Ispirata…
Gli utenti potranno creare e condividere video da 15’ con un catalogo di musica come colonna sonora e la possibilità di inserire un audio col quale giocare e fare remix. Le Reels compariranno tra le storie degli utenti e ci sarà una sezione dove trovare in evidenza le più popolari.
Insomma la risposta di Facebook al successo planetario di TikTok ancora una volta è copiare, copiare TikTok.
➡️ Nel frattempo il social network cinese rischia di essere vietato negli Stati Uniti come è già successo in India, apparentemente per problemi di sicurezza. In realtà si tratta dell’ennesimo passo di una guerra commerciale e tecnologica che oppone America e Cina. Di fronte alla sparizione dagli App Store degli smartphone statunitensi, esiste un’unica alternativa: che ByteDance venda TikTok a un’azienda americana. Cosa che la proprietà non ha alcuna intenzione di fare. Anzi, in un incontro con gli investitori, Zhang Yiming ha detto che la sua società, ByteDance, continua a pensarsi come un’azienda globale ma che comunque si vuole concentrare sul mercato cinese. Vedremo. Di sicuro se il governo americano cancellerà l’app di TikTok, gli adolescenti americani potranno continuare a creare video del tutto simili dentro Instagram.
Due considerazioni facili:
⁃ le contese tra aziende tecnologiche sono sempre più geopolitiche;
⁃ la cancellazione di TikTok sarebbe un regalo immenso e inatteso dal presidente Trump per Zuckerberg.
Regalo…
La velocità di Zoom
(18 luglio 2020)
Possiamo considerare Zoom come uno dei vincitori della battaglia tecnologica combattuta durante il lockdown. Tutti ne parlavano, tutti lo scaricavano, tutti acquistavano le sue azioni, tutti lo utilizzavano (da 10 a 300 milioni di sessioni, in poco meno di 5 mesi). Insomma a dispetto dei problemi di sicurezza, la piattaforma per videochiamate ha messo in crisi la concorrenza. E la concorrenza si chiama Google, Microsoft, Facebook.
Adesso, come anche altri hanno già fatto, Zoom sale di livello e aggiunge al software un suo hardware, lanciando un prodotto che – se dovesse avere successo – potrebbe cambiare le prospettive del lavoro da remoto. Normalizzandolo, rendendolo tecnologicamente più simile a una videoconferenza.
➡️ Zoom Home, è questo il nome dell’oggetto appena presentato, e che si può preordinare alla modifica – si fa per dire – cifra di 599$.
Si tratta di uno schermo che integra le funzioni della piattaforma, cui hanno aggiunto una serie di accessori che rendono l’esperienza di una videoconferenza più confortevole. Il pacchetto prevede: schermo da 27”, in 16:9, con tecnologia touch, 3 telecamere grandangolari, 8 microfoni, una serie di altoparlanti, sistemi che cancellano l’eco e riducono il rumore, la possibilità di lavorare con lavagne virtuali. Un aggeggio niente male. Ma qual è l’elemento interessante e che sposta in avanti il modo in cui lavoreremo da casa?
Quando facciamo remote working siamo immersi in un ecosistema dell’interruzione rappresentato dal nostro computer, dal nostro smartphone e dalle applicazioni che essi contengono. Uno degli elementi della fatica digitale, dalla quale sentiamo di essere attraversati quando infiliamo una videochiamata dopo l’altra, deriva proprio dalle continue interruzioni cui siamo soggetti.
Mail, notifiche, messaggi, notizie: sollecitazioni che non riusciamo a bloccare, che non riusciamo a interrompere o filtrar.
➡️ Adesso Zoom sembra dire al lavoratore da remoto: quando farai una videochiamata ti concentrerai solo quella e su nient’altro. La tua fatica digitale diminuirà, potrai concentrarti soltanto su ciò che dicono i tuoi colleghi. Con qualità audio e video migliori, vedendo e ascoltando meglio, facendoti vedere e sentire meglio.